Il 23 settembre 1983, a Palermo, avviene una strana rapina in un negozio di sanitari: due banditi, dopo aver rubato dalla cassa 250mila lire, aprono il fuoco e con cinque colpi d'arma da fuoco, uccidono una giovane donna, Lia Pipitone di 24 anni. Quella che sembra una storia di ordinaria violenza, simile a tante altre, racchiude, però, un terribile segreto. In realtà, si tratta di una messinscena orchestrata ad hoc per ammazzare la vittima, senza che venga alla luce l’effettivo movente dell’omicidio. Ma la verità è stata finalmente accertata dopo 35 anni, con la condanna a 30 anni di reclusione dei due assassini, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia, due boss del quartiere dell’Acquasanta, lo stesso di Antonino Pipitone, capo cosca di Cosa Nostra e padre di Lia.

Un 'delitto d'onore' voluto dal padre della vittima

I giudici hanno stabilito che, dietro la morte della giovane, ci sarebbe stata la volontà del padre di punire un comportamento disonorevole secondo i codici della mafia. Infatti, la donna avrebbe avuto una relazione extraconiugale e per questo motivo sarebbe stata uccisa. A confermare questa versione è stato anche un collaboratore di giustizia, Francesco Di Carlo, che ha fornito elementi utili alla ricostruzione del pm Francesco Del Bene. Il pentito, durante il dibattimento, ha riportato le parole del fratello Andrea – all’epoca uomo di spicco della famiglia mafiosa degli Altofonte – che gli aveva rivelato come Nino Pipitone avesse deciso l’assassinio per evitare che la notizia del tradimento del marito, da parte di Lia, gettasse discredito sulla famiglia: infatti si trattava di una condotta inammissibile per la figlia di un capo cosca.

La battaglia del figlio di Lia per far venire a galla la verità

Già in passato i collaboratori di giustizia avevano fatto il nome di Nino Pipitone come mandante dell’omicidio della figlia, tanto da farlo finire in carcere negli anni ‘90. Però, al termine del processo, il boss era stato assolto per insufficienza di prove. Ormai l’uomo è morto da parecchio tempo; quindi stavolta sono potuti finire alla sbarra solo gli esecutori di quel feroce assassinio, che forse non è stato l’unico.

Infatti i pentiti hanno sollevato dei dubbi anche sulla morte di un cugino di Lia, che si sarebbe suicidato: secondo loro, il giovane, la cui unica colpa era quella di essersi legato alla figlia di Pipitone, potrebbe essere stato obbligato a scrivere la lettera di addio ai familiari, prima di venire freddato dai sicari della mafia.

A contribuire alla riuscita delle indagini è stato anche Alessio, figlio di Lia, che, all’epoca del delitto, aveva quattro anni. L’uomo, nel 2012, ha scritto, con la collaborazione di Salvo Palazzolo, giornalista di Repubblica, “Se muoio, sopravvivimi” (Melampo), un libro utile per la riapertura delle indagini, in cui si ripercorre la storia di Lia, un'artista amante della libertà che aveva osato ribellarsi a quel padre malavitoso ed autoritario. Adesso la sua battaglia, per far venire alla luce tutta la verità sulla scomparsa della madre, può dirsi finalmente vinta.