La mattina del 3 agosto 2011, di ritorno da una serata in discoteca, Martina Rossi precipitò dal terrazzo dalla camera 609 dell'albergo Santa Ana di Palma di Maiorca, in Spagna, nel disperato tentativo di sottrarsi a un abuso di gruppo. Lo ha stabilito la sentenza con cui la corte d'Appello di Firenze ha condannato a tre anni di reclusione Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi per tentata violenza. La condanna è arrivata lo scorso 28 aprile dopo che è stato celebrato il processo bis. Le motivazioni della sentenza sono state appena pubblicate. Dopo dieci anni dalla morte della studentessa genovese, si è giunti a una verità processuale.

Martina Rossi non voleva uccidersi, gli imputati mentirono

Il 3 agosto del 2011, Martina Rossi non voleva uccidersi, ma salvarsi la vita. Lo scrivono i giudici nella sentenza che ne tratteggia un profilo ben diverso da quello fatto dalla difesa degli imputati: una ragazza tranquilla, che non avrebbe avuto alcun motivo di porre fine alla propria vita. Il provvedimento annota che i molti testi sentiti a processo, l'hanno ricordata come una 20enne solare, appagata del proprio percorso universitario, nel pieno della progettualità della vita sociale e affettiva, "una ragazza normale alla quale nell’ultimo periodo della propria vita erano accadute soltanto cose positive che la motivavano nel suo percorso di vita".

Martina andò nella camera 609 dell'albergo dove alloggiavano Albertoni e Vanneschi perché nella sua stanza le amiche erano in compagnia degli altri della comitiva. Per i giudici, gli imputati hanno sempre mentito. Secondo la loro versione, la ragazza, drogata, ubriaca, avrebbe tentato approcci, da loro due respinti, per poi lanciarsi dal balcone in un impeto improvviso, senza un motivo plausibile.

Brutalmente aggredita si difese, i segni sul corpo

La sentenza ricostruisce gli ultimi attimi di vita di Martina Rossi. Secondo i giudici, nella stanza degli imputati fu aggredita da entrambi, e si difese. Ingaggiò una colluttazione sicuramente con Albertoni, provocandogli graffi al collo, e riportò lesioni non compatibili con la caduta dal sesto piano.

Voleva scappare per sfuggire agli abusi. Non riuscì a guadagnare la porta d'ingresso perché intralciata da entrambi gli imputati. Cercò la via di fuga dal terrazzo, scavalcando un muretto divisorio con l'intento di rifugiarsi nel terrazzo della camera accanto. Purtroppo, per la paura e per un fattore occasionale, il distacco di un pezzo di muro, perse la presa e precipitò. Il tentativo di scavalcare il balcone, lasciò segni sulle sue gambe.

La corte ha considerato per la prima volta dall'inizio della vicenda processuale prove dell'aggressione subita, oltre ai graffi sul collo di Albertoni e alle ferite sul volto di lei, l'occhio sinistro tumefatto, il labbro spaccato, le lesioni sulla spalla sinistra, la scomparsa dei pantaloncioni del suo pigiama.

Fatto che "non trova spiegazione se non che entrambi gli imputati, o uno di loro, tolse con violenza i pantaloncini di Martina Rossi nel tentativo di avere con quest'ultima un approccio". La Corte ha sposato la tesi della parte civile che ha sempre sostenuto la brutale aggressione subita dalla studentessa, e del suo perito, il medico legale Stefano Zacà, che ha attribuito le lesioni sul corpo di Martina a un momento precedente alla caduta.

I genitori: 'Giustizia parziale'

Bruno Rossi e Franca Murialdo, genitori di Martina Rossi, non hanno mai perso un'udienza dei tre processi finora celebrati. Si è arrivati a una condanna degli imputati, dopo che il reato più pesante che gli era stato contestato, quello di morte in conseguenza di altro reato, è caduto in prescrizione.

"È una giustizia parziale, sofferta, che non ha tenuto conto della gravità dell'accaduto, la morte di una ragazza", ha detto il papà, intervistato da Bianca Berlinguer a Carta Bianca. "Il dolore diventa sempre più grande", hanno sottolineato entrambi.

Dieci anni fa, regalarono a Martina la sua prima vacanza da sola per i brillanti risultati da studentessa universitaria di Architettura. Scelse un viaggio con le amiche a Palma di Maiorca. La mattina del 3 agosto, vennero avvisati che la figlia era morta. Si precipitarono in Spagna senza sapere cosa fosse successo. Da quel momento, è iniziata per loro una via crucis umana e giudiziaria, culminata nel 2020 con l’assoluzione in appello da entrambi i capi di imputazione sia di Vanneschi che di Albertoni.

Tre mesi fa, la Cassazione ha ordinato un nuovo processo d’appello per “incompletezza, manifesta illogicità e contraddittorietà” della sentenza di secondo grado. Ora la condanna e il timore dei genitori che anche questa possa sfumare. "Siamo disperati, non potremmo accettarlo".