Politica e ‘ndrangheta in Calabria. Riflettori accesi nell’aula bunker di Lamezia Terme sulle relazioni che legano la criminalità organizzata alle istituzioni e al mondo dell’imprenditoria nel maxiprocesso Rinascita Scott, nato dall’operazione coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro diretta dal procuratore Nicola Gratteri. È la settima udienza del maxiprocesso Rinascita Scott dedicata all’ascolto della ricostruzone dei fatti resa dal collaboratore di giustizia Andrea Mantella che oggi ha risposto alle domande del pm Andrea Mancuso.

Innanzi al collegio giudicante del Tribunale di Vibo Valentia, presieduto da Brigida Cavasino con a latere i giudici Gilda Romano e Claudia Caputo, ha parlato per ore descrivendo le dinamiche tra clan. A partire dall’infiltrazione nella gestione dei rifiuti nel vibonese attraverso, la società vincitrice dell’appalto: il CNS SCARL di Bologna amministrato da Silvio Claudio Martino Pellegrino. “Avevamo accordi precisi. Il dottor Pellegrino – spiega Mantella – aveva concordato il tutto con Pantaleone Mancuso alias Scarpuni, boss di Limbadi. Pagava con delle fatture il noleggio di due compattatori, di un camion per gli ingombranti, aggiungendo una quota di pura estorsione.

Soldi che ho visto in prima persona. Una tranche di pizzo per la gestione dei rifiuti infatti la davano anche a noi. Era il 2008 e Morelli, cui madre è cugina del polito Giamborino, aveva avviato questo business sulla spazzatura. Pellegrino aveva uno studio nello stesso condominio di Pietro Giamborino e c’era anche lui all’incontro per accordarci sui soldi che doveva darci per lavorare sull’appalto dei rifiuti”.

Politica e ‘ndrangheta, il ruolo di Pietro Giamborino

Andrea Mantella ha chiarito il ruolo del politico Pietro Giamborino ex consigliere, assessore e presidente del consiglio provinciale di Vibo Valentia, nonché ex consigliere della Regione Calabria in quota PD. “Pietro Giamborino, il politico, - precisa Mantella in videoconferenza da sito riservato – so per certo che è uno ‘ndranghetista.

Lo conosco dall’infanzia, fa parte del clan Giamborino cosca storica di Piscopio. Lo incontravo a casa del boss Carmelo Lo Bianco e confermo che è stato sempre funzionale alle attività della criminalità organizzata. Durante le ricorrenze dava gli auguri di persona al mio capo Carmelo Lo Bianco e a tutti i soggetti di spessore della ‘ndrangheta vibonese. Quando le mie attenzioni estorsive avevano sfiorato le sue attività, intorno al 2006, intervenne Saverio Razionale che mi disse di lasciarli in pace. Così feci”.

Gli ex amici del pentito Mantella

“Dal 2001 al 2011 sono stato ai domiciliari o in clinica (grazie alle false perizie psichiatriche) – ricorda Mantella rispondendo alle domande del pm Mancuso - dopo non sono mai uscito dal carcere.

Non vedevo nessuno perché non c'erano più le cene che facevamo quando ero ricoverato a Villa Verde. Ho mantenuto la mia posizione apicale fino al 2011. Durante la carcerazione attraverso Francesco Scrugli, che dava dei messaggi da recapitare a zio Armando Mantella, ricevetti l’informazione che il clan dei piscopisani nell’intento di contrastare i Mancuso voleva uccidere Peppone Accorinti e Saverio Razionale. Ne parlammo più volte con il diabolico Domenico Bonavota e decidemmo di lasciarli fare. Poi Francesco Scrugli, che era il mio principale portavoce, è stato ucciso a Vibo Marina e io ho iniziato a collaborare. Il collaboratore di giustizia Raffaele Moscato era un azionista dei piscopisani, non l’ho mai frequentato.

L’ho visto nel 2009 una volta che venne a casa di Salvatore Tripodi, il quale era nostro tramite con i medici dell’Ospedale di Tropea, per ritirare della droga. Una persona che a volte vedevo era Pino detto il Papa, all’anagrafe Francesco Carnovale (che risulta tra gli imputati ndr). Gli hanno ucciso un fratello, aveva una sala giochi, un american bar, facevano lì dentro attività funzionali agli interessi dei piscopisani. Pino D’Amico invece era mio amico fraterno. È il patron della Dmt petroli, genero del vecchio capo ‘ndrangheta dei piscopisani, con me si è messo sempre a disposizione con soldi, assegni, forniture gas, gasolio, assunzioni di lavoro anche per chi doveva scontare pene alternative.

L’equilibrio era mantenuto con la forza del terrore: se i Piscopisani avessero ucciso qualcuno dei Mancuso avrebbero reagito con ferocia. Intanto per dare un segnale della pretesa indipendenza dei piscopisani, fu eliminato Michele Palumbo l’assicuratore di fiducia dei Mancuso”.

Mantella racconta gli omicidi commessi per conto dei “capi”

“Dovevo eseguire gli ordini. Se non lo facevo venivo punito. Michele Neri – dichiara Mantella – l’ho ucciso a Vena di Ionadi senza saperne il motivo insieme a Filippo Gangitano. L’incarico mi è stato dato mentre eravamo negli uffici dei vigili urbani, che in realtà era l’uffico del clan Lo Bianco – Barba. Franco Barba, noto come Pino Presa e imputato in questo processo, era quello che mi aveva fatto vedere quale fosse la vittima e si trovava con Paolino Lo Bianco quando dopo l’omicidio consegnai loro la pistola.

Si sono complimentati e mi hanno dato un’altra dote di ‘ndrangheta. La partecipazione omicidiaria di Pino Presa si concretizzò anche in altre occasioni. Nello specifico ebbe un ruolo nella vicenda che portò alla morte del suo vicino nella casa al mare Mario Franzoni che ha pagato con la vita la colpa di aver aggredito sventolando una pistola i suoi figli. Enzo Barba, alias il Musichiere, mi ha chiesto di ucciderlo perché aveva picchiato i “figghioli”, mi dispiaceva perché conoscevo Mario Franzoni, un usuraio, che era insieme a me in carcere. Il mio capo Domenico Lo Bianco mi promise che se avessi fatto questo omicidio avrebbe fatto realizzare da Barba (che era un costruttore), una villa in contrada Corvo di Vibo Valentia per me e una per il mio amico Francesco Scrugli.

Le case ci furono regalate, Pino Presa non aveva problemi di soldi, nascondeva le banconote nelle doppie pareti di casa della suocera. Era ai vertici della cosca Lo Bianco, rispettato, temuto era conosciuto come una persona vendicativa in stretti rapporti con i La Rosa a Lamezia Terme e i Mancuso a Limbadi”.

Il killer assissinato perché era gay

“Il movente dell’uccisione di Filippo Gangitano – tiene a ribadire Mantella - non l’ho mai condiviso. L’ho dovuto ammazzare perché era gay, in più aveva commesso omicidi e poteva essere pericoloso nel momento in cui avesse deciso di collaborare con la giustizia. I Lo Bianco – Barba dipendevano da San Luca da dove si lamentavano della vergogna che nel clan vibonese c’era un omosessuale.

Mi hanno obbligato a eliminarlo, ho cercato di convincerli che non era giusto, ma non ci sono riuscito, sono stato costretto a ucciderlo. Con lo stesso Gangitano oltre a Neri avevamo ucciso due rapinatori 17enni. Francesco ed Enzo Barba avevano organizzato una rapina con il mio capo Carmelo Lo Bianco e io avevo l’impegno di coordinare il colpo. I due ragazzini esecutori hanno però rubato il malloppo, circa 20 milioni di lire. La responsabilità era mia perché non avevo vigilato bene quindi dovevo eliminarli. Diedi loro un appuntamento dicendo che dovevo dargli caschi e moto per un’altra rapina, invece li freddai con una pistola che si scaricò. Per evitare che rimanessero in vita terminati i proiettili dovetti finire uno dei due ragazzini usando un grosso sasso”.

Magistratura complice, magistratura ostile

“Grazie all’avvocato Anselmo Torchia – rivela il collaboratore di giustizia Mantella - dal penitenziario di Milano sono tornato ai domiciliari nela clinica Villa Verde. Lui fungeva da intermediario con un giudice del Tribunale del Riesame di Catanzaro e si impegnò affinché venisse annullata la custodia cautelare in carcere. Così io e Carmelo Lo Bianco pagammo per uscire. Fummo scarcerati dopo gli arresti dell’operazione The Goodfellas. La Procura di Catanzaro guidata da Borrelli ha però impugnato il provvedimento portandolo in Cassazione, alla fine siamo tornati tutti in carcere e condannati nei tre gradi di giudizio. Il denaro per pagare l’intercessione con il giudice del Riesame l’ha messo Franco Barba e credo che la famiglia Lo Bianco poi lo abbia risarcito.

Il mio capo Carmelo Bianco ha poi fatto una trattenuta dalla mia quota di bacinella”.

Voti e favori ai politici vicini ai clan

“A Vibo Valentia ci sono più estorsioni che abitanti e a gestirle è il clan Lo Bianco-Barba. La politica ci tiene in considerazione. Vincenzo Barba so che alla fine degli anni Novanta si prodigò per procurare voti all’ex presidente del Catanzaro calcio Giuseppe Albano, titolare della ditta aggiudicataria degli appalti delle mense di scuole e dell’ospedale di Vibo Valentia. Durante le campagne elettorali il clan scende in campo. Sono certo che Vincenzo Barba raccolse preferenze anche per l’ex sindaco di Vibo Valenttia ed ex magistrato Elio Costa, nonché per l’ex consigliere comunale di Vibo Valentia Domenico Evalto.

La massomafia era il suo ambiente. Con l’avvocato Tallarico invece ci vedevamo tutti i giorni o all’autosalone di suo suocero, o al suo studio, Lo Bianco usciva quasi tutte le sere con Tallarico soprattutto a cavallo delle elezioni. Una volta – ha affermato oggi Mantella - siamo andati a Costantino di Briatico a trovare l’avvocato senatore Luigi Lombardi Satriani (che fu avvocato difensore di Giacomo Mancini ndr) che aveva ricoperto la carica di membro della commissione parlamentare antimafia. Il senatore doveva comprare dei terreni al fine di costruire un villaggio turistico. Su richiesta del boss Accorinti e dei Mancuso siamo andati con Franco Barba in una casa antica e mi venne presentato.

Il colloquio verteva sul fatto che a essere interessato a questa operazione finanziaria vi era uno della Guardia di Finanza, allora si accordarono sulla dazione di circa un milione di euro affinché l’acquisto andasse a buon fine. I soldi che ricevevamo andavano ripuliti. Tra le persone con questo compito per il clan Mancuso c’è Tonino La Rosa che ricicla denari e titoli in tranche da 400/500mila euro. Denaro provento di sangue, violenze, soprusi, droga. Non sono soldi sudati con il lavoro. Sono frutto di reati che portavano al crollo, per fare un esempio, di ponti e palazzine a causa dell’uso di materiali scadenti. Il mio rapporto con il clan Lo Bianco era un po’ ambiguo. Avevo raggiunto la mia autonomia, ubbidivo ciecamente ai loro dettami, eppure mi consideravano un ribelle. Ero in rapporti personali con questi ambienti, mi dispiace vederli oggi in carcere. Ognuno ha scelto la propria strada”.