Musicista, autore e producer con un’anima da viaggiatore, Don Jio ha costruito il suo percorso tra Italia e Berlino. Dal mondo elettronico dei Lunatiq Phase alla dimensione più intima e acustica dei suoi brani da solista.
Il suo nuovo singolo, All I Wanna Do, disponibile dal 3 ottobre su tutte le piattaforme digitali, è un concentrato di emozione e sincerità. Una dichiarazione d’amore nata da un momento reale, raccontata con voce e pianoforte, poi trasformata in diversi remix che ne ampliano l’universo sonoro.
Don Jio: 'Uscire dall’elettronica mi ha dato più spazio come compositore, cantante e musicista'
Abbiamo incontrato Don Jio per parlare di musica, autenticità e futuro. Ne è nata una chiacchierata sincera, tra riflessioni, aneddoti e una grande voglia di tornare alla purezza del suono e dell’emozione.
Dalle prime note al coro universitario: la tua storia musicale parte dal pianoforte classico e arriva fino alla produzione elettronica. Come è cambiato il tuo modo di intendere la musica lungo questo percorso?
"Dal pianoforte nascono tutte le mie canzoni. Dall’essenzialità di uno spartito possono nascere mille arrangiamenti. Cominciando a lavorare con produttori di musica elettronica, sono entrato in un’altra dimensione di suoni, di atmosfere, di profondità che ti trasportano realmente in un altro mondo.
Però sentivo che in quell’ambito c’era troppo poco spazio per quello che intendo fare io. Pochi accordi, poca voce, anche perché era il periodo che chiamo della “minimal”. I vocalist sparivano dalle discoteche, le canzoni non erano più cantate. Tutto quello che proponevo ai DJ e ai produttori veniva filtrato e ridotto all’essenziale: più che raccontare una storia, si cercava un loop da ripetere per far ballare la gente. Io ho sempre avuto grandi storie da raccontare, per questo ho sentito l’esigenza di allontanarmi dall’elettronica. La mia voce veniva usata come un suono tra i tanti, come un synth: il cantante non aveva più l’importanza che credo possa avere. E quante volte grandi canzoni sono state cantate da turnisti pagati pochi euro, registrati in un’ora, solo perché avevano una pronuncia straniera perfetta.
Parlando di elettronica, mi piace la musica ambient, queste canzoni estese che si sviluppano lentamente, trasportando l’ascoltatore in dimensioni parallele. Io le vivo così, non ho fretta, per questo a volte le mie canzoni sono molto lunghe. Oggigiorno però ci rendiamo conto che viviamo in un mondo veloce e le persone vogliono che succeda tutto subito. Alcuni cantanti in meno di un minuto fanno già succedere strofa e ritornello, mentre io a volte dopo un minuto ancora non ho cominciato a cantare. Con il progetto Lunatiq Phase abbiamo fuso elettronica e armonia, ma c’erano troppi strumenti, troppi sintetizzatori: per un live avremmo avuto bisogno di venti musicisti. Il mio progetto solista, invece, è nato per cinque musicisti sul palco, con la canzone al centro.
Mi piacerebbe anche sviluppare un live essenziale con un corista e soli pianoforte e violino. Quindi uscire dall’elettronica mi ha dato più spazio come compositore, cantante e musicista, ma questa è la mia esperienza personale, non dico che valga per tutti".
All I Wanna Do nasce da un momento d’amore e di leggerezza. In che modo questo brano rappresenta oggi la tua maturità artistica rispetto ai lavori precedenti?
"I lavori precedenti erano più istintivi. Con All I Wanna Do ho cercato di essere più pop: un testo ragionato, un ritornello orecchiabile e facile da ricordare. Ho imparato in questi anni a essere più sintetico. Ho comunque mantenuto il mio stile. Tutte le mie canzoni, anche con arrangiamenti diversi, hanno la stessa matrice.
All I Wanna Do è stata una sperimentazione attraverso la realizzazione dei vari remix. Nella versione original di cui ho fatto il video, gli archi e il pianoforte restano predominanti, sono gli unici protagonisti. A questo punto del mio percorso riesco a proporre più versioni di me".
Hai registrato le voci del singolo dentro un armadio vintage, a casa tua. Quanto conta per te l’autenticità e l’imperfezione nei processi creativi, rispetto alla produzione “da studio”?
"Non fraintendetemi, mi piace andare in studio e cantare in cuffia con tutto quello che serve. L’armadio è stato un piccolo esperimento, anche un po’ una ribellione. Non volevo sempre dover andare in studio e registrare, con tutti i suoi costi, anche perché poi spesso cambio idea e cambio qualcosa.
Volevo provare l’home recording ed è stato divertente cantare nella mia intimità, quasi per gioco. La canzone era allegra e piena di entusiasmo, quindi saltellavo cantando e seducendo l’ interno di un armadio, consapevole della comicità del momento. Stavo registrando la versione dance. Poi nella versione acustica ho cambiato mood, ho rallentato l’entusiasmo, l’ho resa più profonda ed emozionante. Bastava il piano e gli archi, solo un basso per la profondità delle frequenze, non serviva la groove, non serviva altro. Ho spesso cercato di concepire le mie canzoni come facilmente remixabili: All I Wanna Do ha già quattro versioni, e potrebbero essercene anche altre. Mi piacerebbe essere contattato da qualcuno che voglia dare una sua versione di quello che propongo.
Suono spartiti dei miei artisti preferiti o di qualsiasi singola canzone che mi piaccia, e trasformo gli accordi da chitarra in pianoforte, ho un mio metodo per farlo. Una canzone apparentemente dance può avere mille vite: è quello che cerco di fare. Una canzone registrata in un armadio può diventare qualsiasi cosa. Non ci sono limiti alla creatività e alla trasformazione.Non è che cerco il difetto - in realtà sono un perfezionista - ma ho dei limiti tecnologici. Arrivo a un punto in cui non sento più alcun difetto. Io faccio le canzoni con un mini Mac, con una scheda audio economica: le chiamo le mie “scatoline”. Mi bastano quelle per fare tutto quello che sentite. Solo la batteria viene suonata dal vivo.
Creo le groove copiandole o prendendole in prestito, poi le trasformo insieme a un batterista di talento che segue le mie indicazioni. So che una voce registrata in uno studio grande, con un buon microfono, con tecnici esperti e apparecchiature analogiche, suonerebbe diversa. Io mi rifiuto di pensare che sia una condizione necessaria per arrivare al pubblico. Da bambino ascoltavo musica con un Walkman o con un mangianastri: quel suono era già sufficiente per emozionarmi. Certo, come produttore so che un buon impianto permette di sentire più dettagli, ma la canzone per me dovrebbe essere apprezzata anche con poca qualità sonora. Non tutti hanno mezzi per grandi studi e nemmeno le case discografiche di oggi hanno le possibilità di una volta.
Non voglio che questo diventi un limite per la creatività".
Il videoclip di All I Wanna Do mescola Sardegna e Berlino, mare e città. È come se rappresentasse due anime del tuo mondo: la calma e il movimento. Come definiresti la tua identità musicale?
"In realtà la mia Berlino, non è quella di cui si sente tanto parlare. Vivo in un appartamento grande e silenzioso, all’ultimo piano, dove regna la pace più assoluta. Mi piace la vita di quartiere, le strade tranquille, la possibilità di andare in bici, i parchi. Berlino non è Londra, Parigi o Barcellona. Ho vissuto due anni a Barcellona e lì ho sofferto il caos, i turisti, l’affollamento. Tornare a Berlino mi ha restituito calma e spazio, e tutto è accessibile.
Siamo tutti puntuali ma senza fretta. Quindi il video girato nel silenzio del mare non differisce così tanto dalla mia Berlino”.
'Se non ci fossero stati i Lunatiq Phase, non sarei quello che sono': uno sguardo al passato e la voglia di vivere il futuro
Da Lunatiq Phase al tuo progetto solista, hai attraversato più fasi artistiche e sonore. Cosa ti ha spinto a intraprendere questo viaggio da solo e come si riflette questa scelta nel tuo modo di scrivere oggi?
"Con i Lunatiq Phase ho espresso tutto quello che potevo e imparato a esprimermi. Dariush mi ha insegnato molto e completava la mia inesperienza. Abbiamo fatto cose bellissime, di cui vado tuttora orgoglioso. Poi, dopo alcuni anni, i nostri gusti musicali hanno cominciato a divergere.
Come in una storia d’amore: ci si sceglie, si costruisce qualcosa, ma a volte si cresce diversamente, si cambia. C’è stata l’idea di provare a fare da solo, e ormai avevo acquisito le capacità necessarie per creare le canzoni esattamente come volevo, senza la collaborazione di qualcun altro. È stata l’esigenza di scrivere e realizzare tutto a mio piacimento. Se non ci fossero stati i Lunatiq Phase, non sarei quello che sono. Però in un gruppo spesso bisogna incontrare molti compromessi. Eravamo due alfa ed era giusto separarci musicalmente. Comunque non escludo collaborazioni con altre persone in futuro: con questo album che sta per uscire ho realizzato completamente il mio progetto egoistico, totalmente individuale.
A questo punto della mia vita, le contaminazioni mi incuriosiscono".
Hai detto di voler tornare a “fare il cantante”. In un’epoca dominata dai social e dalla produzione digitale, cosa significa per te riscoprire il contatto diretto con la musica e con il pubblico?
"Oggi è necessario creare materiale visivo per far ascoltare la musica. Una volta ascoltavi la radio, o portavi l’iPod pieno di musica in mp3. Oggi la gente guarda il telefono. Non è una critica al progresso, è così. Ho iniziato a fare video, mi sono appassionato e ho imparato molto. È un processo creativo interessante, ma per me fuori dalla mia preparazione musicale, ho un sacco di limiti: richiede molto lavoro. Anche preparare un reel verticale per Instagram richiede ore: centrare le immagini, pensare a didattica semi intelligente, scegliere gli hashtag.
Il problema è che spesso non c’è un vero contatto con il pubblico: pochi like, poche visualizzazioni. Non so se per l’algoritmo o perché le persone scorrono velocemente. Lavori ore e solo pochi interessati guardano quello che fai. È frustrante dedicare così tanto tempo a qualcosa che, pur utile, non porta grandi risultati. Vorrei passare più tempo al pianoforte, cantando, coltivando la mia voce. Come uno sportivo che si allena costantemente prima della partita. Ma le giornate hanno solo 24 ore, e se hai una vita sociale attiva, fai sport, e ti occupi di altre cose oltre alla musica, non rimane tempo per cantare. Vorrei dedicarmi di più alla mia voce, senza dover affrontare tutte le richieste del mondo moderno".
Guardando al futuro: dopo questi ultimi progetti ormai pubblicati, quali sono le direzioni che vorresti esplorare? Hai già in mente nuove collaborazioni o sonorità da sperimentare?
"Ho messo tutto me stesso nella realizzazione, perfezionamento e promozione di queste canzoni. Ho già in mente qualcosa di nuovo: voglio cantare in spagnolo e in italiano. Ho già scritto una canzone che non conoscerete in questo album, e mi sono reso conto che cantando nella mia lingua mi emoziono di più. A volte canto una canzone al pianoforte - l’ultima che ho scritto - e arrivo a un contatto con la mia anima: è difficile non piangere mentre canto, mi commuovo. Dopo tutto questo percorso, sento che è il momento di cantare in italiano. Dico spagnolo perché per anni ho passato gli inverni in Sud America — tra Messico e Colombia — e ho trovato una seconda casa. C’è un universo di musica in spagnolo che noi non conosciamo: un mondo parallelo, un continente. Parlo spagnolo perfettamente: ho studiato all’università in Spagna e Argentina, ho vissuto per due anni a Barcellona, e viaggi frequenti me lo hanno reso quasi una lingua madre. In futuro mi piacerebbe sperimentare sia in italiano che in spagnolo. Quanto al genere musicale… vedremo, perché ogni volta che mi metto al computer nasce qualcosa di diverso".