Lo sport nazionale non è, come siamo abituati a credere, il gioco del pallone, che tante energie, passioni, risorse anche economiche mobilita continuamente, ma è il gioco delle parole. Ed è un gioco che si può giocare sempre, senza campi, senza maglie e senza niente altro che una bocca per parlare. È un gioco questo in cui, apparentemente, non ci si fa del male ma con il quale, invece, si può fare molto male. Le parole possono ferire e persino uccidere, basta ricordare il commissario Calabresi e il professor Biagi, soltanto per fare qualche esempio.
Le parole possono spingere a credere qualunque cosa e a commettere atrocità, basta pensare alla predicazione dell'odio fondamentalista.
Ma, soprattutto, le parole possono ingannare e traviare menti giovani e meno giovani, specialmente se dette e ripetute da cattivi maestri o da organizzazioni arcaiche, che continuano ad avere seguito. Dei cattivi maestri abbiamo un ben preciso e triste ricordo legato agli anni di piombo, ma possiamo pensare che quella stagione sia irripetibile e quell'avvelenamento ci abbia immunizzato. Invece, della arcaicità di talune organizzazioni abbiamo una testimonianza continua e deprimente, basta pensare alla proclamazione del prossimo sciopero generale che, per evitare l'etichetta di sciopero-ponte, è stato spostato al 12 dicembre, forse volendo replicare il successo nominalistico del precedente sciopero "sociale".
Un nuovo ossimoro tanto efficace a livello di comunicazione, quanto penoso rispetto al messaggio. Come se, astenendosi dal lavoro e sfilando in corteo, si potesse cambiare la realtà. Eppure ci sono stati scioperi e manifestazioni che hanno contribuito ad abbattere dittature e a far cadere regimi, dal sud America all'est Europa, e sono stati momenti eroici nei quali si metteva in gioco tutto.
E molti hanno perso tutto e sono spariti. Ma questi scioperi, cortei, manifestazioni che ingombrano le nostre strade, da quali idee scaturiscono? Sono idee che vogliono far muovere le cose o idee che le cose vogliono conservarle tali e quali? Forse questi "idealisti" non accettano l'idea che quanto era pensabile in altri tempi e in altri spazi non è più possibile.
Invece dobbiamo accettare la fatica e il rischio del cambiamento che, comprensibilmente, può sgomentare ma che è inevitabile. Qualcuno, a livello individuale, può rifiutarsi di partecipare al gioco e può andarsene sotto un ponte o a zappare, ma tutti gli altri devono partecipare e le organizzazioni dei lavoratori dovrebbero aiutarli a capire, piuttosto che a non voler capire.