Il fatto risale al 28-29 novembre dello scorso anno, ma la notizia è trapelata soltanto in questi giorni. L'episodio ha del clamoroso, ma forse non stupirà più di tanto chi, per professione, frequenta le aule dei Tribunali. Un provvedimento di custodia cautelare in carcere emesso nel corso delle indagini preliminari è impugnato dal difensore dell’indagato innanzi al Tribunale della libertà di Bologna. L’udienza è fissata il 29 novembre 2016. Il giorno prima dell’udienza, la cancelleria del Tribunale comunica al difensore che i giudici hanno respinto la sua richiesta di riesame.

L’indagato resterà in carcere. Il giorno dopo l'avvocato difensore si presenta in udienza per discutere l’istanza, con l’ordinanza in mano. I giudici, nel verosimile imbarazzo generale, spiegano al legale che si è trattato di un equivoco, ma preferiscono astenersi, osservando che la situazione che si era venuta a creare poteva comunque ingenerare l’apparenza che la decisione fosse stata assunta prima di sentire le ragioni della difesa.

Questi i fatti, nudi e crudi

Ci sarà chi, non credendo, neppure per un attimo, ad un qui pro quo, griderà allo scandalo. L’art. 24 della Costituzione proclama, con enfasi, che il diritto di difesa è inviolabile. Ma ci sarà pure chi sa, per esperienza diretta, che, neppure troppo di rado, le ragioni della difesa sono ascoltate distrattamente e di malavoglia, perché il giudice si è già formato il suo convincimento dalla lettura delle carte processuali, e sa che non ci sono ragioni che tengano.

Certo, nel processo la forma è sostanza, per cui quella dei giudici bolognesi resta una “gaffe”, perché un conto è l’intimo convincimento del giudice, e altro conto è anticipare la decisione al difensore o comunque alle parti. Ma non per questo, al netto dell’ipocrisia, si può gettare la croce ai giudici bolognesi. Non sono i giudici, sconsideratamente sollecitati dalla pubblica opinione “a fare presto” più che “a fare bene”, e comunque oberati da un’enorme mole di lavoro, a violare il principio del contraddittorio, ma è l’inefficienza cronica del processo, unita alla decadenza del prestigio dell’avvocatura, ad aver ridotto, ormai da tempo, il contraddittorio ad un simulacro, se non addirittura, come direbbero i giuristi, ad una fictio iuris.