Il primo incontro tra Xi Jinping e Donald Trump tenutosi presso la residenza privata di Trump in Florida, si è chiuso da poco. Tra i due leader pare si siano raggiunte intese importanti in materia di cooperazione internazionale e di commercio. Le questioni in cima all'agenda riguardavano i rapporti commerciali tra i due paesi e il problema della Nord Corea, il cui programma nucleare preoccupa gli Stati Uniti.

Nel bel mezzo del colloquio tra i due leader è avvenuto l'attacco missilistico deciso dal presidente statunitense contro la base aerea siriana di Al Shayrat, da cui sarebbero partiti i raid chimici del regime siriano.

Tale gesto ha sicuramente provocato non pochi imbarazzi nello staff presidenziale cinese.

I punti cruciali

Dall'incontro paiono emergere segnali apparentemente positivi per una collaborazione futura. Di sicuro l'iniziale - e a tratti violenta - retorica anticinese che ha caratterizzato la campagna elettorale di Trump sembra essersi attenuata molto. Trump ha modificato molto l'impostazione anticinese in materia di politica estera da quando è divenuto presidente, spostando progressivamente la propria attenzione sulla Russia e il Medio Oriente, tradizionali settori di intervento degli ultimi presidenti statunitensi. In questo cambio di agenda politica l'amministrazione Trump sembra essere influenzata dagli apparati (militari e burocratici) e dai gruppi di potere repubblicani e democratici dominanti a Washington, tradizionalmente caratterizzati da una impostazione antirussa, più che anticinese.

Sulla Corea, i due presidenti sono sembrati concordi nel favorire una distensione nella regione, anche se le divergenze risultano palesi: se gli USA optano per il cambio di regime, Pechino intende mantenere il suo alleato Kim Jong-un, anche se i cinesi rimangono critici verso la prosecuzione del programma nucleare nordcoreano.

Gli americani si sentono minacciati da un eventuale arsenale atomico nordcoreano, mentre i cinesi intendono sfruttare l'alleato come pedina nello scacchiere estremorientale. Si è discusso anche di Corea del Sud, stretto alleato di Washington, e del Thaad, lo scudo antimissile costruito dagli Usa per proteggere Seul.

Sull'economia i due leader hanno raggiunto un'intesa per un programma di 100 giorni in cui raggiungere progressi in materia di scambi commerciali.

Trump aveva accusato infatti la Cina di sfruttare il proprio surplus commerciale e di danneggiare l'economia statunitense. Con questo memorandum i due paesi hanno trovato punti in comune con cui favorire una spinta all'export statunitense e ridurre il surplus commerciale cinese.

Sulla questione siriana è chiaro che la decisione di condurre un attacco nel bel mezzo dell'incontro tra le due delegazioni è servita anche a lanciare un segnale a Pechino e a confermare che, come annunciato da Trump, gli USA sono pronti "ad agire da soli" per raggiungere i propri obiettivi. Non solo sulla questione strettamente legata ad Assad, ma anche nei riguardi dell'altro problema, ovvero il regime nordcoreano di Kim Jong-un, sul quale c'è da attendersi forse azioni "straordinarie" da parte di Trump.

Di sicuro l'attacco missilistico americano ha avuto una valenza sul piano interno, ed è servito a rafforzare la leadership americana non solo nei rapporti tra questa e l'opinione pubblica statunitense, ma anche per quanto attiene le relazioni tra l'establishment repubblicano, gli apparati militari e l'amministrazione Trump, il quale si è voluto confermare nel ruolo di comandante in capo delle forze armate e di presidente con pieni poteri.

Di certo una cowboiata degna dei tempi di Reagan, ma che conferma gli USA come potenza aggressiva e senza scrupoli, capaci e pronti a usare la forza anche in una situazione delicata come quella siriana in cui ad essere in gioco vi sono, oltre la fine di una guerra civile che ha fatto fin troppi morti, anche sottili equilibri internazionali che non richiedono un uso deliberato della forza come quello cui ha voluto far ricorso Trump. In tali scenari molto delicati per la stabilità mondiale è d'uopo infatti il ricorso alla diplomazia, non l’esibizione muscolare dello strapotere militare.