Sorrisi forzati, sguardi distaccati, imbarazzo palpabile. Non poteva esserci momento peggiore per lanciare la candidatura a premier di Luigi Di Maio. Il teatro dell’incoronazione si è trasformato inesorabilmente nella rappresentazione pubblica della disarmonia che ora regna nei Cinquestelle. Al di là delle smentite e degli abbracci di rito, la scalata che ha proiettato Di Maio a nuovo capo politico del M5S ha spiazzato tutti. Le primarie farsa hanno lasciato il segno, è inutile girarci intorno, soprattutto in coloro che davvero hanno creduto sin dal primo giorno nella rivoluzione sbandierata a più riprese da Grillo e Casaleggio.

Non è tanto l’aver promosso a tavolino il nuovo leader ad aver indispettito molti, quanto l’impossibilità di avanzare una controproposta competitiva. Di Battista, Fico e Sibilia (solo per citare gli illustri assenti principali), pur volendo non avrebbero potuto prestare il fianco alla sceneggiata di Grillo anche per una questione di dignità personale. Laddove non è arrivato l’altolà dei vertici, ci ha pensato il buon senso dei diretti interessati a evitare il peggio. Ma l’aria resta tesa e a poco è servita l’opera di pacificazione messa in piedi da Di Maio.

Dissenso e tregua

Di sicuro le contrapposizioni tra correnti non si sono concluse con la kermesse di Rimini. L’ala più ortodossa del M5S ha accettato la nomination del vicepresidente della Camera chiarendo, al tempo stesso, di essergli distanti nel merito delle sue scelte politiche.

Roberto Fico, considerato a pieno titolo l’esponente di spicco leader d’opposizione interna, ha ribadito un concetto chiave: “Di Maio sarà il candidato premier della forza politica come prescrive la legge elettorale, ma non sarà capo di tutta la vita del Movimento”. Parole che suonano come un dissenso non solo nei confronti dell’incoronato, ma anche di Grillo e Casaleggio.

Nel sottile gioco degli equilibri interni dei Cinquestelle, fisiologicamente, un fattore determinante resta l’ambiguità della loro collocazione politica. In tal senso Di Maio e Fico rappresentano l’antitesi: il primo reincarna tutti i pregi e i difetti del democristiano 2.0; il secondo, per cultura e formazione, potrebbe essere il candidato ideale di numerosi partiti della Sinistra parlamentare.

Le elezioni regionali in Sicilia, almeno per il momento, hanno avuto il merito di accantonare le polemiche. Ma quanto durerà la tregua?

Incognita Rosatellum

L’ufficializzazione della candidatura del prediletto di Grillo e Casaleggio, del resto, non ha portato a uno scatto importante nei consensi. L’ultimo sondaggio di Emg condotto per il TgLa7 ha fatto registrare un arretramento di elettori dell’1,2% con il M5S bloccato al 27,1%. Passo indietro emblematico che ha favorito il nuovo sorpasso del Partito Democratico di Matteo Renzi, proiettato al 28,4%. Al terzo gradino stabile la Lega di Matteo Salvini con il 14,4%, seguita a ruota dall’arrembante Forza Italia di Silvio Berlusconi con il 13%. Di sicuro molte delle possibilità di vittoria dell’una o dell’altra forza politica, dipenderanno da quella che sarà la legge elettorale.

Il percorso in Parlamento del Rosatellum procede spedito grazie ai numeri di Pd, FI, e del Carroccio. A far trapelare un cauto ottimismo sul possibile accordo è stata la sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi: “La nuova legge elettorale ha la chance di essere approvata”. A scagliarsi contro il patto delle larghe intese è stato Mdp con D’Alema (“Il Rosatellum è indecente e aberrante” ndr) e il M5S con Beppe Grillo: “È un sistema elettorale costruito per sfavorirci”.