Malcontento, tensione e veleni. La fotografia del Partito Democratico è tutta nel day after la presentazione dei candidati che correranno per il nuovo Parlamento. Matteo Renzi questa volta si è esposto, molto di più rispetto alle precedenti occasioni. “Abbiamo in campo la miglior squadra per vincere le elezioni” ha affermato pubblicamente, quasi a voler replicare alle pesanti accuse piovutegli addosso dentro e fuori il Nazareno. Il segretario non ha fatto regali alla minoranza imponendo a scatola chiusa scelte che poco hanno riflesso le percentuali delle ultime primarie.

Per pochissimo non si è consumato un clamoroso strappo, con la corrente guidata da Andrea Orlando che ha minacciato di tirarsi fuori dal gruppo. Lo stesso Michele Emiliano, l’altro sfidante perdente alla segreteria dem, ha criticato la manovra di Renzi ma ha richiamato tutti all’unità alla vigilia di un appuntamento elettorale considerato già compromesso. Quel che è certo è che, comunque vada a finire il 4 marzo, il PD si prepara all’ennesima resa dei conti della sua giovane e travagliata storia. A correre in soccorso di Renzi è stato Romano Prodi, che ha bocciato senza appello la proposta alternativa degli ex compagni oggi confluiti in Liberi e Uguali di Pietro Grasso. “Voterò per il Centrosinistra - ha affermato il Professore - perché chi è fuori dalla coalizione non vuole l’unità”.

Di Maio apre all’intesa

Le costanti schermaglie e divisioni tra correnti nel PD non fanno che accrescere la credibilità della concorrenza, che pure non se la passa benissimo. Il Movimento5Stelle, dato dai sondaggi primo partito nel Paese, deve capire cosa vuol fare da grande. La transizione guidata da Luigi Di Maio da forza d’opposizione a forza di governo prosegue, ma inevitabilmente fa emergere contraddizioni e dubbi di non poco conto.

Data per assodata l’impossibilità di toccare quota 40 per cento, in che modo i Cinquestelle si arrogheranno il diritto-dovere di guidare il Paese? Di Maio ha parlato a più riprese di disponibilità a incassare il sostegno esterno degli altri partiti. Sembra lontano il tempo in cui Forza Italia e PD, su tutti, erano bollati come il male assoluto da debellare.

Il passo indietro di Alessandro Di Battista, l’addio di Beppe Grillo, hanno però privato il M5S della cosiddetta intransigenza parlamentare divenuta un dogma in tutti questi anni. Di Maio vuole Palazzo Chigi e l’arte del compromesso con il nemico non rappresenta più un tabù. Un esempio è il feeling con la Lega di Matteo Salvini con il quale, secondo le malelingue, c’è stato già un primo contatto. Chissà che a mettere d’accordo i due non sia proprio il giornalista ex Carroccio, Gianluigi Paragone.

Le perplessità di Salvini

Meno incertezze, ma solo sulla carta, li ha il Centrodestra. L’asse a quattro (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e la quarta gamba di Noi con l’Italia ndr) guarda alle elezioni con ottimismo ma, nelle segrete stanze, ognuno lavora per assicurarsi la miglior via d’uscita alternativa possibile.

Silvio Berlusconi è convinto di vincere e di piazzare sulla poltrona di premier un suo fedelissimo. Negli ultimi giorni ha preso quota la nomination di Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo. Questo continuo scavalcamento nei ruoli ha mandato su tutte le furie Matteo Salvini, che ha nuovamente invocato maggiore rispetto dall’ex Cavaliere. Il capo del Carroccio non si è mai fidato di Berlusconi e della sua predilezione per larghe intese con il PD di Renzi. Per questo la porta al M5S resta socchiusa, essendo il partito più affine per ideologie. “Non li demonizzo - ha spiegato Salvini dal salotto televisivo di Matrix - alcune battaglie le condivido, ma non posso accordarmi su chi cambia idea ogni quarto d’ora”.

Il fresco arretramento di Di Maio sui capitoli legati al No all’Europa e alla lotta all’immigrazione non sono affatto piaciuti. In campagna elettorale, però, ognuno deve recitare il suo copione: dal 5 marzo sarà tutta un’altra storia.