Gli italiani vogliono un governo. Un governo per il cambiamento e il risanamento del sistema, per la crescita economica, per la lotta alla povertà, per il sollievo delle aree depresse del Mezzogiorno, per il rilancio delle attività produttive a cominciare dal Nord, per l’alleggerimento della pressione fiscale, per la equità pensionistica, per la salvaguardia del ruolo dell’Italia in Europa come partner paritario degli altri Paesi fondatori dell’Unione.

Un governo che affronti, con la richiesta determinazione, le emergenze dell’immigrazione, della sicurezza, della ripresa dei processi di modernizzazione del Paese, in primo luogo, attraverso la realizzazione di infrastrutture strategiche.

Se queste sono le legittime domande dei cittadini, rilevabili nitidamente dal voto del 4 marzo e dai frequenti sondaggi di questi giorni, quali sono – vien da chiedersi - le risposte delle istituzioni e della Politica? Emergono: la estenuante lentezza delle consultazioni del presidente Mattarella; lo sconcertante gioco dei veti incrociati dettati da “conventio ad excludendum” di non felice memoria; le nient’affatto convincenti pressioni della stampa, in gran parte schierata, per un verso, per il recupero del Pd nella prospettiva di un governo con i Cinquestelle, e, per l’altro, a favore del rientro di Berlusconi nell’agone delle maggioranze. È vero che il “lento pede” mattarelliano è incoraggiato dai sei mesi impiegati, in Germania, dalla Merkel per un “contratto di governo” con i suoi tradizionali avversari, ma non è men vero che la Germania non ha le emergenze dell’Italia.

Di Maio e Salvini 'condannati' ad allearsi?

Sui veti, il primo a sbagliare è Di Maio, che, mentre nega ogni possibilità di dialogo con Berlusconi, si apre all’incontro con il Pd, senza escludere Renzi, contro il quale ha impostato la sua campagna elettorale, andata avanti con il vento in poppa sulla scia delle feroci polemiche contro i personaggi più invisi dell’entourage renziano del tipo Boschi e Lotti.

L’assenza di una più coerente e matura equidistanza, che ci potrebbe anche stare nel nome del cambiamento, finisce per privilegiare un’ipotesi di governo che non avrebbe numeri sufficienti per garantirsi una maggioranza. L’idea del “contratto” è tecnicamente impropria, ma lo è anche nel richiamo alla pur azzeccata trovata tedesca, che, tuttavia, ha ben altre logiche rispetto a quelle italiane.

Se appare fuorigioco il giornalismo sallustiano, per l’ineluttabile declino berlusconiano, si prospetta addirittura fuorviante quello travagliano, che si sente impegnato a rivitalizzare un partito (il Pd) da lui stesso screditato e tramortito dal corpo elettorale con uno storico salasso di voti. Salvini ne esce ingigantito. Un voto anticipato lo premierebbe, mentre, attenzione, potrebbe punire l’”ego” di Di Maio, che con le sue contraddizioni e, soprattutto, con il suo venir meno a qualsivoglia ipotesi di alleanza (donde, il “contratto”) mostra di non aver affatto compreso i vincoli del sistema proporzionale. Soprattutto dimentica che, in questo caso, potrebbe "lasciarci le penne" in ragione di una consolidata tendenza dell’elettorato (da sempre) incline a penalizzare coloro i quali riconosce come i responsabili di un ritorno accelerato alle urne.

L'indicazione degli italiani “condanna” Di Maio e Salvini a mettersi insieme, responsabilmente, in un “patto (generazionale) di cambiamento”, senza contratti, ma con ogni garanzia sull’agenda di governo da sancire con una stretta di mano solenne davanti ai cittadini. Una figura terza, autorevole, designata dalle forze vincenti, potrebbe assicurare l’attuazione di un programma mediato, ma non svilito, tra gli impegni assunti in campagna elettorale e dare tempo di maturare alle esperienze dei due leader. Le emergenze premono. Non si può sbagliare.