Dopo l’annuncio, da parte del Presidente Donald Trump, del ritiro del contingente Usa dalla Siria, si sono verificati due fatti indicativi di quale potrà essere il prossimo futuro nell’area. Il primo è stato il discorso del segretario di Stato Mike Pompeo, all'università americana del Cairo.

Pompeo ha seppellito definitivamente la Politica medio orientale di Barack Obama ed ha affermato che “il vero nemico in Medio Oriente è l’Iran”. Per tale motivo, gli Usa si appresterebbero a convocare una riunione anti-iraniana in Polonia, nel prossimo mese di febbraio.

L’obiettivo del governo statunitense sarebbe quello di espellere dalla Siria tutti i militari e i miliziani iraniani che sinora hanno spalleggiato Bashar Assad.

Il secondo evento è stato la serie di attacchi aerei e missilistici israeliani del 20 gennaio scorso, all'aeroporto di Damasco e ad altri siti strategici. Tali attacchi erano diretti ai siti di stoccaggio dei rifornimenti e ai centri di controllo dei miliziani iraniani operanti in Siria. Come è noto, la presenza dell’Iran in Siria è funzionale al suo supporto agli hezbollah libanesi sciiti, nemici giurati di Israele, al pari dei palestinesi di Hamas.

La guerra in Siria delle medie potenze per conto della superpotenza USA

Entrambi gli eventi si ricollegano all'annuncio di Trump del ritiro del contingente militare Usa.

Essi vanno letti nella logica della guerra per interposizione. Ritirando il suo esercito, gli Stati Uniti lasciano alla Turchia il compito di tutelare ciò che resta dell’opposizione a Bashar Assad. Ad Israele, invece, sarà affidato l'onere di eliminare le milizie e i contingenti iraniani.

Questo rimescolamento di carte mette in serio imbarazzo la Russia, unica grande potenza rimasta in forze nell'area.

Mosca è il principale sostegno militare al governo siriano. Il ruolo di protezione degli antigovernativi, affidato dagli Usa alla Turchia, mette in crisi quella specie di "intesa cordiale" che Putin aveva avviato e concluso con Erdogan. Ugualmente gli può creare problemi l’eliminazione dei miliziani iraniani, essendo costoro alleati del governo siriano.

In un sol colpo, Trump potrebbe aver sgretolato quell'unità di crisi comprendente Russia, Iran e Turchia ed escludente gli Usa, messa in piedi da Putin.

Così il 23 gennaio scorso, tre giorni dopo l’attacco israeliano, Vladimir Putin ha voluto incontrare Erdogan a Mosca per giocare a carte scoperte. L’interesse della Turchia, nell'area, riguarda soprattutto la questione curda. Il presidente turco, infatti, definisce come terrorismo qualsiasi ingerenza e rivendicazione dei curdi. Il suo fine principale è quello di evitare un possibile raccordo tra i curdi siriani e quelli che vivono all'interno del suo Stato.

Putin, invece, vorrebbe riportare il territorio curdo-siriano sotto il controllo governativo, accordandosi con i curdi e, quindi, concedendo loro qualcosa.

Analogamente intenderebbe liberare i territori del nord dove si sono ritirate le formazioni antigovernative, tuttora protette dalla Turchia. La maggior parte di tali gruppi, tra l'altro, è composta da jihadisti ed affiliati ad Al Qaida. Non sembra, però, che, dopo i colloqui di Mosca, l’intesa cordiale tra Russia e Turchia si sia rafforzata. Semmai, il contrario.

Il ruolo di Israele in Siria

Anche verso Gerusalemme, Putin non aveva instaurato un cattivo rapporto. Il suo obiettivo, infatti, era quello di mantenere i contatti con le centinaia di migliaia di ebrei di origine russa che si sono trasferiti nello Stato ebraico. Israele, però, vede come il fumo agli occhi gli hezbollah libanesi, religiosamente affini agli iraniani e fortemente riforniti di armi e di “consiglieri” militari da parte di Teheran.

A Israele interessa, da un lato, rompere quel cordone ombelicale che, grazie alla presenza iraniana nel sud della Siria, collega l’Iran agli hezbollah e al Mediterraneo. Dall’altro lato, intende replicare il modello già sperimentato in Cisgiordania: tenere “fisicamente” lontani i guerriglieri sciiti con la costruzione di un muro di cemento in pieno territorio libanese, ben al di là dei propri confini.

Entrambi questi propositi non confliggono con gli interessi russi che, anzi, potrebbero vederli di buon occhio. Lo dimostra il fatto che i recenti attacchi israeliani sulle basi iraniane hanno suscitato, da parte di Mosca, reazioni meno che formali. Di qui a ipotizzare una nuova escalation della situazione bellica, quindi, mancano ancora alcuni presupposti.