I cittadini italiani saranno chiamati dalla politica alle urne il 8 e 9 giugno 2025 per esprimersi su cinque quesiti referendari abrogativi che toccano temi cruciali per il mondo del lavoro e i diritti di cittadinanza. L'esito del voto potrebbe ridisegnare in maniera significativa alcuni aspetti della legislazione vigente sui temi del lavoro e della cittadinanza. Per la validità di ciascun referendum, è necessario il raggiungimento del quorum, ovvero la partecipazione al voto della maggioranza (50% più uno) degli aventi diritto.
Di seguito, verranno esaminati singolarmente i cinque quesiti referendari, illustrando la normativa attuale e le modifiche che verrebbero introdotte in caso di accoglimento della proposta abrogativa da parte del corpo elettorale.
Reintegro dei lavoratori in caso di licenziamento illegittimo (aziende sopra i 15 dipendenti) - Scheda verde
- Situazione attuale: la normativa attuale, modificata in particolare dalla Legge Fornero nel 2012 e successivamente dal Jobs Act, ha ridimensionato l'applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970) per quanto riguarda il diritto al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento giudicato illegittimo. Per i lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti (introdotto dal Jobs Act) nelle aziende con più di 15 dipendenti, il reintegro è previsto solo in casi specifici di nullità del licenziamento (ad esempio, discriminatorio o ritorsivo) o per licenziamenti disciplinari in cui sia dimostrata l'insussistenza del fatto materiale contestato. Nella maggior parte degli altri casi di licenziamento illegittimo, la tutela prevista è prevalentemente di natura economica, con un'indennità risarcitoria.
- Cosa cambierebbe con il "Sì": il "Sì" a questo referendum mira ad abrogare le disposizioni che limitano il diritto al reintegro. Di conseguenza, si estenderebbero le ipotesi in cui il giudice, accertata l'illegittimità del licenziamento, potrebbe ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. L'obiettivo dei promotori è quello di ripristinare una tutela reale più forte contro i licenziamenti ingiustificati, consentendo al lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo di riottenere la propria posizione lavorativa, e non solo un indennizzo economico. Questo rappresenterebbe un ritorno a una concezione più tradizionale dell'articolo 18, precedente alle riforme del governo Renzi, per le imprese di maggiori dimensioni.
Limiti all'indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo (piccole imprese) - Scheda arancione
- Situazione attuale: nelle imprese di minori dimensioni (fino a 15 dipendenti), la tutela in caso di licenziamento illegittimo è differente rispetto alle aziende più grandi. Attualmente, la legge prevede dei limiti massimi per l'indennità risarcitoria che il giudice può riconoscere al lavoratore ingiustamente licenziato. Questi limiti sono spesso fissati in un numero definito di mensilità (ad esempio, fino a un massimo di 6 mensilità della retribuzione globale di fatto, come indicato in alcune interpretazioni delle norme post-Jobs Act per le piccole imprese in specifici casi). Ciò significa che, anche di fronte a un licenziamento palesemente illegittimo, il risarcimento economico ottenibile dal lavoratore ha un tetto massimo prestabilito per legge.
- Cosa cambierebbe con il "Sì": se prevalesse il "Sì" a questo referendum, verrebbero abrogate le norme che stabiliscono questi tetti massimi all'indennità risarcitoria nelle piccole imprese. Di conseguenza, il giudice acquisirebbe una maggiore discrezionalità nel determinare l'ammontare del risarcimento dovuto al lavoratore, potendo così commisurare l'indennità alla gravità effettiva del caso specifico, alla situazione personale del lavoratore, all'anzianità di servizio e ad altri fattori rilevanti, senza essere vincolato da limiti predefiniti. L'intento è quello di garantire una tutela economica potenzialmente più congrua per i lavoratori delle piccole realtà produttive che subiscono un licenziamento ingiusto, permettendo al giudice di valutare caso per caso l'entità del danno subito.
Reintroduzione della causale per i contratti a tempo determinato sotto i 12 mesi - Scheda grigia
- Situazione attuale: la legislazione vigente sui contratti a tempo determinato prevede che un datore di lavoro possa assumere un dipendente con un contratto a termine per una durata massima di 24 mesi. Tuttavia, l'obbligo di specificare una "causale" – ovvero una ragione oggettiva che giustifichi il ricorso al tempo determinato (come ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive) – scatta solo se il contratto supera i 12 mesi di durata, oppure in caso di rinnovo. Per i contratti a termine di durata inferiore all'anno, non è attualmente richiesta alcuna motivazione specifica da parte del datore di lavoro.
- Cosa cambierebbe con il "Sì": la vittoria del "Sì" a questo referendum comporterebbe l'abrogazione della norma che esenta dall'obbligo di causale i contratti a tempo determinato di durata inferiore ai 12 mesi. Pertanto, anche per questi contratti "brevi", il datore di lavoro sarebbe tenuto a specificare formalmente le ragioni che giustificano l'apposizione del termine. L'obiettivo dei proponenti è quello di contrastare un utilizzo eccessivamente flessibile e potenzialmente precario dei contratti a termine di breve durata, reintroducendo un controllo sulla loro effettiva necessità e limitandone l'uso ai soli casi in cui sussistano comprovate esigenze temporanee. Questo potrebbe portare a una maggiore stabilità per i lavoratori e a una riduzione del turnover basato su contratti a termine non motivati.
Responsabilità solidale del committente negli appalti in caso di infortuni sul lavoro - Scheda Rossa
- Situazione attuale: in materia di appalti e sicurezza sul lavoro, le normative attuali prevedono una complessa ripartizione delle responsabilità tra l'azienda committente (colei che affida il lavoro) e l'azienda appaltatrice (colei che esegue il lavoro). Generalmente, l'appaltatore è direttamente responsabile della sicurezza dei propri dipendenti. La responsabilità del committente può sorgere in caso di ingerenza diretta nell'esecuzione dei lavori o per omessa vigilanza sulla scelta dell'appaltatore e sulle misure generali di sicurezza. Tuttavia, esistono disposizioni che possono limitare la responsabilità solidale del committente, specialmente per i rischi specifici propri dell'attività dell'appaltatore, se non vi è una colpa diretta del committente stesso.
- Cosa cambierebbe con il "Sì": se il "Sì" ottenesse la maggioranza per questo referendum, verrebbero abrogate le norme che limitano o escludono la responsabilità solidale del committente per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali verificatisi nell'ambito di un appalto. Ciò significherebbe che l'azienda committente potrebbe essere chiamata a rispondere, insieme all'appaltatore, dei danni subiti dal lavoratore, anche per rischi specifici legati all'attività appaltata. L'intento è di rafforzare le tutele per i lavoratori impiegati negli appalti, spesso esposti a maggiori rischi, incentivando una maggiore attenzione alla sicurezza da parte di tutti i soggetti coinvolti nella catena produttiva, inclusa l'impresa che affida i lavori. Questo potrebbe tradursi in una maggiore probabilità per i lavoratori infortunati o i loro familiari di ottenere un risarcimento integrale.
Riduzione del requisito di residenza per la richiesta di cittadinanza italiana - Scheda Gialla
- Situazione attuale: La legge attuale (Legge n. 91/1992) prevede che uno straniero extracomunitario maggiorenne possa richiedere la cittadinanza italiana per naturalizzazione dopo aver risieduto legalmente e ininterrottamente in Italia per un periodo di almeno 10 anni. Esistono poi casi specifici con requisiti temporali differenti (ad esempio per rifugiati, apolidi, o discendenti di cittadini italiani).
- Cosa cambierebbe con il "Sì": La vittoria del "Sì" a questo referendum comporterebbe l'abrogazione parziale della norma attuale, specificamente per quanto riguarda il requisito dei 10 anni di residenza per i cittadini extracomunitari. La proposta mira a dimezzare tale periodo, portandolo a 5 anni di residenza legale e ininterrotta in Italia come requisito minimo per poter presentare la domanda di cittadinanza. Resterebbero invariati gli altri requisiti previsti dalla legge, come la dimostrazione di redditi sufficienti, l'assenza di precedenti penali rilevanti e la conoscenza della lingua italiana. L'obiettivo dei promotori è di facilitare l'integrazione e l'accesso ai pieni diritti di cittadinanza per coloro che vivono, lavorano e contribuiscono stabilmente alla società italiana da un significativo numero di anni, allineando l'Italia ad altri Paesi europei che prevedono requisiti di residenza più brevi.