La crisi tra Israele e Iran ha aperto un fronte politico violento negli Stati Uniti. Mentre Israele sta distruggendo le centrali iraniane e il regimen di Teheran e il premier Banjamin Natanyahu spinge per un intervento americano, il presidente Donald Trump si trova stretto tra due linee di fuoco: da una parte le pressioni militari e diplomatiche dell’alleato israeliano, dall’altra una frattura interna sempre più evidente tra i sostenitori dell’intervento e chi teme un nuovo Vietnam mediorientale.

Il senatore Lindsey Graham, un falco della vecchia guardia repubblicana, ha riassunto senza giri di parole la posizione dei falchi repubblicani: distruggere il programma nucleare iraniano è l’unica opzione praticabile, anche se ciò comportasse l’uso di bombe bunker-buster contro il sito di Fordow.

È una posizione che gode di ampi consensi tra i repubblicani tradizionalisti e tra molti esponenti dell’establishment di sicurezza nazionale. L’idea è che il tempo della deterrenza sia finito e che l’America debba riaffermare la sua potenza militare nel Golfo.

Il fronte del no: MAGA e sinistra democratica

Ma il partito repubblicano non è più un blocco compatto. Il movimento Maga, pilastro della base elettorale trumpiana, è fortemente contrario a qualsiasi tipo di escalation, perché crede fermamente nella chiusura degli Stati Uniti e del disimpegno a livello globale per poter investire in sviluppo interno.

L'attivista Charlie Kirk, la politica Marjorie Taylor Greene e altri esponenti populisti di estrema destra rifiutano il concetto stesso di guerra preventiva. La retorica è chiara: una nuova guerra in Medio Oriente tradirebbe le promesse di “America First” e alienerebbe milioni di elettori. A loro si unisce un’altra voce repubblicana storicamente isolazionista, quella di Rand Paul, che ha criticato duramente l’entusiasmo bellico di alcuni colleghi, sottolineando che la guerra non può essere un gioco politico. C'è da dire che Trump per anni aveva usato questa retorica, promettendo di essere il presidente della pace che avrebbe risolto la guerra in Ucraina in 24 ore.

Anche tra i democratici si è formato un fronte contrario all’intervento.

Se l’amministrazione è in stato di allerta, la sinistra del partito — da Alexandria Ocasio-Cortez a Bernie Sanders — chiede a gran voce che ogni decisione militare passi per un voto formale del Congresso. È una posizione condivisa anche da alcuni centristi, che temono un coinvolgimento improvviso in un conflitto ad altissimo rischio senza un vero consenso istituzionale. Questo scenario ha spinto diversi parlamentari di entrambi i partiti a preparare una risoluzione per limitare i poteri esecutivi della Casa Bianca in materia di guerra.

La questione legale: chi può dichiarare guerra?

Al centro del dibattito c’è un nodo costituzionale mai risolto: può il presidente degli Stati Uniti dichiarare guerra senza l’autorizzazione del Congresso?

La risposta, tecnicamente, è no. La Costituzione americana affida al Congresso il potere esclusivo di dichiarare guerra. Tuttavia, nella prassi contemporanea, diversi presidenti hanno aggirato questo limite utilizzando il War Powers Act del 1973. Questa legge consente al presidente di intraprendere azioni militari senza approvazione preventiva, a condizione che informi il Congresso entro 48 ore e ottenga l’autorizzazione entro 60 giorni. Così fece Obama in Libia nel 2011. Così fece lo stesso Trump nel 2020, ordinando l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani in Iraq senza una risoluzione parlamentare.