Si è parlato molto, soprattutto nella fase elettorale appena (apparentemente) conclusasi, di religione, di rispetto della cultura, di osservanza della tradizione e insegnamento della stessa. Una recente sentenza del tribunale del lavoro di Berlino ha, nelle ultime ore, gettato nuova benzina sul fuoco del dibattito che rischia di divampare già nei prossimi giorni.
I fatti di cronaca
Scuola elementare di Berlino. Una scuola come tante altre, che in questi giorni sta facendo parlare di sé per un caso di cronaca che più volte ha già fatto discutere specialmente noi italiani.
Al suo primo giorno di lavoro, un'insegnante di religione islamica è stata allontanata dall'istituto, perché "colpevole" di indossare l'hijab, il tradizionale velo islamico, durante la giornata lavorativa.
La decisione del tribunale del lavoro berlinese che ha confermato l'allontanamento della maestra, si rifà alla cosiddetta "legge sulla neutralità", che vieta a tutti gli impiegati statali di indossare simboli, abiti o qualunque cosa rimandi al proprio credo religioso durante l'orario lavorativo. Di conseguenza, è vietato ad esempio indossare croci cristiane, gli ebrei non possono portare la caratteristica kippah, mentre le donne musulmane devono rinunciare all'hijab.
L'insegnante è stata trasferita ad un istituto superiore, ma nonostante ciò ha presentato ricorso al tribunale del lavoro che, in questi giorni, ha convalidato il divieto.
A questo punto, inevitabilmente, in Germania si è rinnovato un già acceso dibattito: la sentenza è giusta o siamo di fronte ad un atto di discriminazione religiosa?
Secondo il tribunale non ci sono ragioni che tengano. Infatti, sebbene le leggi sulla neutralità religiosa non siano omogenee in tutti i Laender tedeschi, il giudice in causa, Arne Boyer, ha affermato che la libertà religiosa della donna "non dovrebbe avere la precedenza sull'interesse delle autorità nell'organizzare le scuole primarie secondo il principio della neutralità religiosa".
Sentenza chiusa, dunque, e polemiche rinnovate. Ma è interessante notare come questo caso (spesso in voga anche in Italia) abbia a disposizione una teoria sociologica estremamente utile a comprenderne il funzionamento. Stiamo parlando del diamante culturale proposto da Wendy Griswold, grazie al quale è possibile svelare i meccanismi e le domande a capo dell'acceso dibattito che sta infiammando la Germania e, perché no, anche il resto d'Europa da qualche tempo a questa parte.
La logica del diamante culturale
In un mondo in cui i contatti tra culture diverse sono all'ordine del giorno e la globalizzazione è un fulcro importante nella spiegazione della modernità, si è sentita la forte necessità di identificare e spiegare il concetto di cultura, studiarne la nascita e il contesto, oltre che i soggetti che da essa si sviluppano. È qui che entra in gioco una piccola branca della sociologia, la sociologia della cultura. Essa nasce con l'intento di spiegare i vasti intrecci di norme e valori che, da sempre, determinano la nascita e lo sviluppo di ogni tipo di società, dalle più complesse alle più semplici.
Tutti questi studi, nell'età moderna, sono risultati preziosi alla spiegazione di uno dei maggiori argomenti di discussione della nostra epoca.
Stiamo parlando, ovviamente, delle relazioni tra culture diverse che sempre di più fanno parlare di sé, dividendo apparentemente il mondo in due opposte correnti di pensiero: chi spinge verso una razionale e rivoluzionaria fusione culturale e chi, di animo decisamente conservatore ma indubbiamente più cauto, preferirebbe una più netta frammentazione identitaria, in cui ogni individuo veda rimarcata la sua identità. In ogni caso, non siamo qui per decidere chi abbia ragione o meno. Piuttosto, è necessario spiegare cosa porta a questo fenomeno, e perché il recente fatto di cronaca tedesca ne sia un esempio lampante.
Per affrontare questa problematica, Wendy Griswold fa ricorso ad uno schema ben preciso.
O meglio, ad un diamante: un rombo alle cui estremità inserisce, in senso orario, il mondo sociale (ossia il contesto sociale in cui la cultura viene creata e si manifesta), i destinatari culturali (le persone che vivono in prima persona e fanno esperienza della cultura), l'oggetto culturale (l'insieme di simboli, valori e pratiche che definiscono la cultura, un vero e proprio significato condiviso in una forma) e i creatori culturali (ossia chiunque produca oggetti cui è possibile attribuire un significato culturale, incluse le grandi organizzazioni). Inoltre, di fondamentale importanza è soffermarsi su cosa intenda la sociologa di cultura in merito alla materia da lei studiata. Per la Griswold, infatti, la cultura altri non è che "una struttura di significati trasmessi storicamente, incarnati in simboli, forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano o sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita".
Il discorso è di una semplicità disarmante, eppure di complessa interpretazione. Volendo prendere ad esame il caso della maestra musulmana di Berlino, è necessario analizzare per prima cosa l'oggetto culturale in questione, ovvero l'hijab. Il velo, infatti, va contestualizzato all'interno del mondo sociale islamico, in cui sia i creatori culturali che i destinatari interpretano tale oggetto come simbolo pieno di significato, rappresentando la ritualità e l'idealizzazione religiosa della donna nella cultura islamica, oltre che corrispondere ad un vero e proprio obbligo normativo in alcuni paesi.
Il nocciolo della questione è proprio qui: se per questi destinatari il velo è a tutti gli effetti un oggetto culturale tronfio di un importantissimo significato che rimanda alla sacralità delle scritture, e per molti esse sono imprescindibile guida e dotate di grandissima importanza, non si può dire la stessa cosa dei destinatari originari di un mondo sociale completamente opposto.
Se spostiamo l'oggetto culturale hijab in Germania, infatti, è inevitabile che il sentimento scaturito in questi nuovi destinatari culturali non sia altrettanto forte come nel mondo islamico. In parole povere (poverissime, in verità) spostare un oggetto culturale da un mondo sociale ad un altro, può causare spesso il suo snaturamento, in quanto individui di un differente contesto attribuiscono un diverso significato, spesso considerato anche blasfemo rispetto ai creatori culturali originali, come nel caso del tribunale del lavoro tedesco, per il quale ovviamente l'hijab non è che un mero velo di stoffa che identifica un determinato credo religioso.
Gli strumenti necessari a capire il processo sono, a questo punto, tutti chiari.
La sentenza del tribunale ci appare meno severa e leggermente più giustificata (considerando che alla maestra sarà vietato il solo insegnamento nelle scuole elementari), ma allo stesso tempo riusciamo anche a comprendere meglio la realtà di una donna proveniente da una cultura completamente diversa, con una visione del tutto differente che, nell'incontro con un mondo sociale diverso da quello in cui è cresciuta, si sente come privata di un suo diritto sacrosanto, ossia quello di attribuire un significato ad un determinato oggetto culturale che è per lei forma di aggregazione col contesto a lei più vicina e che simboleggia, oltre ad un significato puramente religioso, un legame naturale e intrinsecamente umano di coesione con chi condivide la medesima cultura.