Si è concluso il processo per la morte del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi avvenuta il 2 ottobre 2018 nel consolato di Riad a Istanbul, in Turchia. Otto le condanne: 20 anni per i cinque componenti del commando per i quali in primo grado era stata chiesta la pena di morte, 10 anni e 7 anni per altre due condannati, assolti, invece, 3 sospettati.

Le reazioni al verdetto

Le condanne emesse hanno provocato un moto di critiche da parte dei familiari e più stretti contatti del giornalista, tanto che la futura moglie della vittima, Hatice Cengiz, ha bollato il processo come "farsa", ribadendo più volte come il governo saudita abbia sempre voluto chiudere il procedimento senza indicare la verità sul mandante dell'omicidio.

Di stesso stampo le critiche da parte della responsabile ONU per le esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie Agnes Callamard che ha etichettato il verdetto come "parodia della giustizia", denunciando come i funzionari di alto livello che hanno organizzato l'esecuzione siano rimasti liberi fin dall'inizio, mentre il principe saudita Mohammed Bin Salman sia stato protetto da ogni tipo di indagine.

Le tappe che hanno portato al processo

Per capire quanto successo, è necessario fare un passo indietro fino al 2 ottobre 2018, giorno in cui Jamal Khashoggi entra nel consolato saudita ad Istanbul per ottenere un documento saudita che certifichi il suo stato civile. Dal consolato non né uscirà più né tanto meno ne sarà ritrovato il corpo.

In quei giorni, si rincorsero voci secondo le quali il giornalista fosse uscito dal consolato, ma nessuna prova trovata suffraga tale affermazione.

Intorno al 6-7 ottobre invece, alcuni funzionari turchi fecero trapelare l'informazione secondo la quale Jamal Khashoggi era stato ucciso nel consolato da un commando arrivato in aereo e ripartito subito dopo: il corpo della vittima, secondo questa ricostruzione, sarebbe stato fatti a pezzi e messo in alcune casse fatte arrivare fuori paese.

All'epoca dei fatti intervenne anche Donald Trump, il Presidente degli Stati Uniti, chiedendo chiarezza e minacciando delle severe pene.

Davanti alle pressioni internazionali, Riad ammise che il giornalista era morto durante una "colluttazione". Vennero, pertanto, arrestate 18 persone e sollevate dai loro incarichi due figure chiave del regno, molto vicine alla corona.

A nulla valsero le reazioni turche che additarono l'uccisione del giornalista come "un piano attentamente progettato giorni prima della sua morte". A riprova di questo, il New York Times, importante testata giornalistica americana, rivelò l'esistenza di una telefonata che avrebbe provato il coinvolgimento nella vicenda dell'Arabia Saudita e del principe ereditario Mohammed bin Salman. Sempre più insistenti divennero così i sospetti che proprio il principe avesse assoldato il commando incaricato dell'uccisione di Khashoggi, tanto che si paventò l'esistenza di un team segreto creato per intervenire contro i dissidenti e metterli a tacere.

Il processo iniziò con la richiesta della pena di morte per 5 indagati.

L'aspra pena è stata poi mitigata dal perdono accordato dai familiari della vittima: una decisione annunciata alla fine del Ramadan, in linea con i dettami della religione islamica che consiglia gesti di clemenza alla fine del mese di digiuno.

Molte furono le polemiche per i sospetti di trasferimento di denaro e beni immobili ai figli dell'editorialista da parte delle autorità del regno: sembra, infatti, che i figli abbiano concesso il proprio perdono solo per via delle regalie accordategli.

Il resto è storia dei giorni nostri con le pene inflitte a non apparire per niente commisurate alla gravità del delitto compiuto. Al riguardo Callamard ha affermato che il processo "non è stato né equo, né giusto, né trasparente".