La relazione della figlia con un altro uomo non l’aveva mai sopportata. Anche perché la ragazza era già legata sentimentalmente con un altro giovane, con la cui famiglia il genitore era in affari. Per questo motivo, almeno secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, la sera del 15 dicembre del 2016, Vincenzo Unali, 60 anni, allevatore di Mores, avrebbe preso il fucile e si. sarebbe presentato di fronte alla casa della madre di Alessio Ara, 37enne operaio di Ittiireddu. Il giovane era stato freddato con due colpi, a distanza ravvicinata, di fucile calibro 16.

Proprio di fronte alla porta di casa del genitore. Per questo motivo, questa mattina, la Corte d’assise di Sassari ha condannato l’uomo all’ergastolo per un omicidio rispetto al quale Vincenzo Unali si è sempre professato innocente. L’uomo, presente alla lettura della sentenza, è rimasto impassibile alle parole pronunciate dal giudice Massimo Zamboni. L’allevatore era difeso dall’avvocato Pietro Diaz. La Corte d’assise di Sassari ha anche accettato la richiesta di risarcimento formulata dal pubblico ministero Giovanni Porcheddu e dai legali di parte civile Luigi Esposito e Ivan Golme. Vincenzo Unali infatti è stato condannato a pagare una provvisionale da ben 200mila euro alla madre della vittima, Grazietta Pittalis.

Mentre al fratello, Gian Salvatore Ara, spettano 130 mila euro.

Affari di famiglia

Secondo quanto emerso durante le tante udienze del processo, Vincenzo Unali era del tutto contrario alla relazione della figlia con Alessio Ara, la vittima. Questo perché la giovane era impegnata con un altro uomo con il quale l’allevatore aveva in corso affari.

Per questo motivo la vittima, secondo il pensiero di Unali, era soltanto d’intralcio per gli affari di famiglia. Ed è stata proprio questa, secondo i giudici, la molla che ha fatto scattare nell’allevatore l’idea di uccidere Ara. Che si è presentato a casa della mamma della vittima, imbracciando il fucile, per sparare mortalmente il giovane.

Durante tutto il processo Unali si è sempre dichiarato innocente, sostenendo sempre di essere estraneo all’omicidio. L’uomo infatti durante il dibattimento ha anche fornito un alibi. Sosteneva infatti che la sera del delitto si trovasse a Mores, nella sua abitazione, insieme alla famiglia. La Procura però non ha creduto alla sua versione e, tra l’altro, ha dimostrato attraverso una traccia di Dna dell’imputato, che il colpevole fosse proprio l’imputato. In un pantalone di una tuta dell’uomo, utilizzato per avvolgere l’arma del delitto, gli inquirenti hanno infatti isolato un Dna compatibile al suo. L’indumento era stato infatti perso dall’assassino durante la fuga, una prova determinante ritrovata dai carabinieri.

Secondo la difesa invece in quei pantaloni c’erano le tracce di almeno due persone. Nonostante questo, però, il giudice della Corte d’assise ha pronunciato la sentenza dell’ergastolo. Una sentenza nata da numerosi dibattimenti, da lunghissime indagini, intercettazioni, pedinamenti e accertamenti biologici.