L’Italia è così ricca di tesori che non smette mai di sorprendere, regalando scorci di bellezza e la possibilità di ammirare gioielli artistici, magari poco conosciuti. A Forlì la mostra «L'Eterno e il Tempo tra Michelangelo e Caravaggio» ci consente ad esempio di scoprire o approfondire la conoscenza di un periodo artistico – quello che occupa la seconda metà del Cinquecento e che i manuali definiscono Manierismo – considerato meno rilevante rispetto alla stagione precedente, l’alto Rinascimento con i suoi grandi maestri: da Leonardo a Raffaello, da Tiziano a Michelangelo.

Ed è proprio il periodo che intercorre tra l’ultimo Michelangelo, quello della Cappella Sistina (1541), e l’affermazione a Roma di un altro Michelangelo, Merisi da Caravaggio, che l’esposizione forlivese curata da Gianfranco Brunelli e Antonio Paolucci vuole esplorare in modo approfondito e originale. Agli estremi di questo percorso, vi sarebbero da un lato l’eterno, come è rappresentato dal Buonarroti nel suo «Giudizio Universale», e dall’altro l’attenzione al vero tipica di Caravaggio, che quella dimensione sacra cerca di cogliere nel tempo e nella storia.

L’arte davanti a un mondo che cambia

Il Cinquecento è un periodo caratterizzato da turbamenti, guerre e radicali trasformazioni. Il mondo intero in pochi decenni cambia profondamente e l’arte non può che esprimere quel mutamento.

È il secolo, infatti, della Riforma prima e della Controriforma dopo ed è quello che vede il nuovo mondo di là dall’Atlantico farsi via via sempre più protagonista a scapito del Mediterraneo e dei Paesi, tra cui l’Italia, che ne sono bagnati. Un secolo che nei suoi albori vede l’apogeo del Rinascimento e l’affermazione di mostri sacri insuperabili.

All’arte successiva non restava allora che imitarli e rifarsi al loro stile e alla loro «maniera» per usare un’espressione tipica del tempo. Con il rischio di cadere in un virtuosismo artistico fine a se stesso. E questo è quello che per alcuni studiosi accadde, fin quando non irruppe sulla scena il Concilio di Trento che riformò anche l’arte attribuendo alle immagini un valore didattico così che aderissero alle scritture e in esse vi fosse «chiarezza e verità».

In realtà, già prima gli artisti italiani avevano cercato di percorrere strade nuove. E sono proprio queste vie che la mostra forlivese ha il merito di cercare e di segnalare.

Un percorso contrassegnato da capolavori

Nel percorso espositivo, ricavato all’interno del complesso di San Domenico restaurato, non mancano i capolavori degni di nota. A partire dal «Cristo Giustiniani» (1513-1515 Bassano Romano, Monastero di San Vincenzo Martire), scultura che Michelangelo lasciò incompiuta. L’opera di Michelangelo Buonarroti, insieme a quella di Raffaello, rappresenta del resto il modello ideale di quasi tutta l’arte cinquecentesca. E se nella statua del Cristo sembra dissolversi ogni idea di compiutezza umana o terrena, nei diversi disegni del Buonarroti esposti si può cogliere il suo lavoro sullo studio anatomico.

Lavoro che, insieme a quello di Leonardo, sono volti a cogliere ancor prima che a rappresentare la natura, anche dell’uomo. Sempre nella prima sala, che raccoglie opere di artisti cinquecenteschi che precedono l’apertura del Concilio di Trento, si trova anche la «Caduta di san Paolo» di Moretto da Brescia (1540-1541 Milano, santuario di Santa Maria dei Miracoli presso San Celso). Più avanti, verso la fine della mostra, è proposto un altro dipinto con lo stesso soggetto: la «Conversione di Saulo» (1587-88 Bologna, Pinacoteca Nazionale) di Ludovico Carracci. E se il confronto tra le due opere è già di per sé intrigante, lo diventa ancora di più se si pensa alla «Conversione di San Paolo», dipinta da Caravaggio nel 1601 e che si trova nella Basilica di Santa Maria del Popolo a Roma.

È probabile, infatti, che nel suo periodo milanese, Michelangelo Merisi abbia visto la tela del Moretto e che questa sicuramente l’abbia influenzato. Sempre nella fase iniziale della mostra si può ammirare il «Compianto sul Cristo Morto» (1524 circa, Galleria Nazionale di Parma) del Correggio, tela che cattura per la sua tragicità e mostra l’originalità dell’artista emiliano e la sua ricerca stilistica volta a rappresentare i "moti dell'animo". Ricerca che insieme alla dinamicità della composizione anticipano e influenzano il Barocco. Spicca anche, se non altro per le proporzioni, il «San Cristoforo tra i santi Rocco e Sebastiano» di Lorenzo Lotto (1532-1533 museo della Santa Casa di Loreto).

Al primo piano l’arte della Controriforma

È però quando si arriva al primo piano che la mostra dà il meglio di sé. Dopo aver presentato il tentativo di rinnovamento proposto, anche nell’arte, dagli «spirituali», presenta infatti il cosiddetto periodo «farnesiano», sotto il pontificato di Paolo III Farnese, il papa che nel 1545 convocò il Concilio di Trento. Protagonista della sala il «Ritratto di Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese» di Tiziano (1545/46 Napoli Museo e Real Bosco di Capodimonte), ma non si può non notare anche uno splendido El Greco: il «Ragazzo che soffia sul tizzone acceso» (1571/72 Napoli Museo e Real Bosco di Capodimonte). Tra le eredità dell’assise tridentina c’è la maggiore attenzione per la pala d’altare che viene vista come il libro per gli illetterati, la Biblia pauperum.

Il suo compito, dunque, è di insegnare, ma anche coinvolgere emotivamente. E tra le pale esposte ve ne sono di significative: quella di Girolamo Siciolante da Sermoneta «Trasfigurazione» (1573 Roma Santa Maria di Aracoeli) e di Girolamo Muziano «Ascensione di Cristo» (1581/82 Roma Santa Maria in Vallicella). Particolarmente interessante però è soprattutto l’opera di Jacopo Zucchi, per esempio la «Resurrezione» (1583/85 Chiesa di San Lorenzo Martire a San Lorenzo Nuovo VT). Qui più che altrove le pose quasi innaturali dei personaggi ritratti sembrano voler coinvolgere direttamente lo spettatore. Interessante è anche l’opera di Federico Barocci, considerato per il suo stile elegante uno dei maggiori esponenti del manierismo, in realtà è stato anche uno dei migliori esempi dell’arte della Controriforma e la sua «Deposizione di Cristo dalla Croce» (1588/89 Perugia Cattedrale di San Lorenzo) mostra bene come fosse possibile realizzare una composizione complessa senza esagerare nella ricerca di un’originalità a tutti i costi.

Bologna e i Carracci sulla via del Barocco

Significativo per il passaggio a un nuovo stile è il ruolo di Bologna e della scuola dei Carracci, la famiglia che forse maggiormente ha influenzato l’arte del XVII secolo. Di Annibale Carracci si può ammirare il «Crocifisso con i dolenti e i santi Bernardino da Siena, Francesco e Petronio» (1583 Bologna, chiesa di Santa Maria della Carità), che propone un ritorno alla grande tradizione e alle forme classiche. Del cugino Ludovico Carracci, che anticipò il Barocco e gli esiti naturalistici che condussero a Caravaggio, invece, è esposta la «Caduta di San Paolo» (1587-1588 Bologna, Pinacoteca Nazionale) di cui si è già detto. Nella penultima sala protagonista è lo studio della natura e spicca un olio su rame di Jan Bruegel il Vecchio «Vaso di fiori con gioiello» (1606 Milano, Pinacoteca Ambrosiana), dipinto che il cardinale Federico Borromeo acquistò a Roma per la propria raccolta, da cui sarebbe nata la Pinacoteca Ambrosiana.

Ma da qui in poi è Caravaggio il dominatore incontrastato della scena, in questa sala con il «Ragazzo morso dal ramarro» (1597 circa Firenze, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi). Un quadro celebre, dove è evidente il naturalismo e l’intento di rappresentare fiori e frutta in maniera quasi realistica. L’ultima sala merita da sola il prezzo biglietto e presenta – e sembra che dialoghino tra di loro - Annibale Carracci, Rubens e Caravaggio con veri e propri capolavori. Annibale Carracci presenta la sua commovente «Pietà» (1604 Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte); Rubens risponde con l’«Adorazione dei pastori» (1608 Fermo, Pinacoteca Civica), opera che è già pienamente barocca ed è caratterizzata dalla contaminazione fra tradizione fiamminga e l’influenza delle opere di Tiziano e Tintoretto, che l’artista ammirò nel suo soggiorno veneziano.

Caravaggio, una rivoluzione incompiuta

Due le tele di Caravaggio che chiudono alla grande la mostra forlivese: «Sacrificio di Isacco» (1603 Galleria degli Uffizi Firenze) e la «Madonna di Loreto» o «Madonna dei Pellegrini» (1605 circa Roma, basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio). Ed è guardando quest’ultimo dipinto che si può cogliere la novità dell’arte di Michelangelo Merisi. Una vera e propria rivoluzione, così radicale che inizialmente non fu capita e apprezzata da tutti. La storia di questo quadro può aiutarci a capirne le ragioni. Mai come in quest’opera, infatti, il racconto sacro è riletto nel presente e rispetto all’iconografia tradizionale c’è un vero e proprio cambio di registro.

Il Santuario di Loreto, una specie di Lourdes italiana, molto frequentato dai pellegrini del tempo, è legato alla leggenda che vuole che in quel luogo sia stata trasportata, in volo direttamente da Nazareth, la casa della Vergine Maria da parte degli Angeli. E a questo mito della casa «volante» si rifanno molti dipinti che trattano l’argomento. Nel quadro di Caravaggio non solo la casa non vola e non ci sono Angeli, ma la Madonna è vestita in modo dimesso e tutt’altro che sfarzoso. Inoltre, come modella il pittore prese una donna dai costumi non proprio irreprensibili – Maddalena Antognetti detta Lena - una cortigiana, oggi diremmo una escort, ben conosciuta a Roma. Se non bastasse i pellegrini inginocchiati in preghiera in primo piano indossano vesti sdrucite e hanno i piedi nudi, gonfi e sporchi.

Qui il naturalismo dell’artista tocca uno dei suoi culmini e il quadro sembra voler proporre una dimensione dell’eterno vissuta nel tempo. Non sorprende, dunque, quello che scrive il pittore e biografo Giovanni Baglione sull’accoglienza della tela una volta posta sull’altare: "Ne fu fatto dai preti e da'popolani estremo schiamazzo".

L’eterno fa irruzione nella storia

Michelangelo Buonarroti cercava di rappresentare il divino, Caravaggio lo coglieva nella quotidianità che vedeva attorno a sé. E questo, anche se in qualche misura era in linea con i dettami della Controriforma, non era semplice da capire. Non è un caso che subito dopo la sua morte, nel luglio 1610, la sua lezione andò perduta e l’arte non seppe farne tesoro se non in qualche contesto specifico, per esempio Napoli con il Ribera. La sua restò così una rivoluzione incompiuta e anche la sua fama, all’apice al momento della morte, andò via via scemando. Del resto quello che andava a imporsi era un gusto barocco colorato e festoso, lontano dalle ombre, a tratti cupe, care a Michelangelo Merisi. Gli anni tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, che hanno portato alla nascita del Barocco, appaiono, dunque, come un periodo tutt’altro che omogeneo. Merito della mostra forlivese aver colto alcuni degli aspetti che li hanno caratterizzati. Ma non si tratta dell’unico pregio. Un altro, forse ancor più rilevante, è aver messo insieme opere provenienti da diverse pinacoteche, molte, inoltre, di collezioni private o abitualmente esposte in chiese e santuari. Questo consente di vedere in una sola occasione tele lontane dai consueti circuiti museali. Del resto, è questo che rende speciale il nostro Paese. Anche altri, infatti, possono vantare grandi musei, in grado di raccontare l’evoluzione dell’arte in modo esemplare. Il nostro è un unico, immenso museo diffuso.

La mostra 'L'Eterno e il Tempo tra Michelangelo e Caravaggio' è visitabile presso i Musei San Domenico 
Forlì, piazza Guido da Montefeltro fino al 17 giugno 2018.