Nel 40% dei casi, remissione completa della malattia. E’ questo il dato più significativo che ha spinto la FDA ad approvare il nuovo trattamento contro questo linfoma. Per ora disponibile sono negli Stati Uniti e limitato ai pazienti già sottoposti ad almeno un altro protocollo terapeutico, senza successo.

Un tumore silente e recidivo

La caratteristica più negativa di questa rara forma di tumore del sangue, il linfoma mantellare, tipo non-Hodgkin, è che solitamente viene diagnosticato in uno stadio avanzato con forme recidivante altamente frequenti.

Interessa i linfociti B, in una zona del linfonodi chiamata “zona mantellare”. Mediamente, l’incidenza è di un caso ogni 25mila abitanti e rappresenta il 2-10% di tutti i linfomi. Purtroppo, tra i linfomi, quello mantellare è caratterizzato dalla peggiore sopravvivenza a lungo termine (meno del 50% sopravvive a 5 anni). In tutta Europa (dati 2012) sono stati registrati oltre 3.400 casi.

Colpisce nell’età adulta (35-85 anni), con una maggiore incidenza nei maschi (rapporto maschi/femmine 4/1), intorno ai 65 anni. I soggetti colpiti da questo linfoma spesso soffrono di disturbi gastrointestinali, fatica, anoressia e calo ponderale. L’origine è di tipo genetico che porta ad una espressione anomala di una proteina, la ciclina D1, che regola il ciclo cellulare.

Oltre al tratto gastro-intestinale, questo linfoma spesso si diffonde anche al midollo osseo.

Lo scorso anno – dopo aver visionato i risultati dello studio clinico MCL-002 - la Commissione Europea aveva approvato lenalidomide, farmaco sviluppato da Celgene, per il trattamento di pazienti adulti con linfoma mantellare (MCL) recidivato o refrattario.

Arriva una nuova soluzione terapeutica

Oltre al lenalidomide, nel linfoma mantellare sono impiegate altre piccole molecole come bortezomib, temsirolimus e bendamustina. Tuttavia, è un anticorpo monoclonale anti CD-20, il Ritiximab, il farmaco più usato come primo approccio, da solo o in combinazione. Ora arriva Acalabrutinib, sviluppato da Acerta Pharma - gruppo AstraZeneca.

Si tratta di un inibitore della tirosin-kinasi. Più precisamente, tra gli inibitori della tirosin-chinasi di Bruton (BTK) è il farmaco di seconda generazione; il primo inibitore era ibrutinib di Abbvie. Rispetto al capostipite (first-in-class), Acalabrutinib risulta essere molto più potente e molto più selettivo verso le altre chinasi.

Questo si traduce in un’applicazione clinica meglio tollerata, con limitati effetti collaterali (rush cutanei, diarrea e rischio emorragico). Grazie a questo profilo, lo scorso anno erano più di venti i trials clinici attivi che vedevano la presenza di Acalabrutinib da solo (più di 600 pazienti) o in combinazione con altri farmaci (circa 400 pazienti), per il trattamento di una serie di tumori tra cui la leucemia linfatica cronica (CLL) o il piccolo linfoma linfocitico (SLL), oltre al macroglobulinemia di Waldenström (WM), un linfoma linfoplasmocitico (LPL).