Come da tradizione Usa, l’8 novembre non si voterà soltanto per decidere chi sarà il 45esimo e nuovo inquilino della Casa Bianca. Diversi Stati dell’Unione, 12 su 50, dovranno eleggere un nuovo governatore, la Camera rinnoverà tutti i suoi 435 membri e il Senato 34 su 100. Inoltre, in 35 Stati si terranno 162 referendum dai contenuti più disparati, dal controllo delle armi alla vendita di tabacco, passando per l’obbligo di usare il preservativo per gli attori a luci rosse in California. Il tema più discusso resta, però, quello della legalizzazione della cannabis.
Al momento sono solo 4 gli stati Usa che hanno legalizzato l’uso ricreativo della marijuana, mentre decine ne permettono l’utilizzo terapeutico. Durante il prossimo Election Day altri 9 dovranno esprimersi sull’argomento; 5 (Maine, Massachusetts, Nevada, Arizona e California) in favore o contro l’uso ludico di cannabis, mentre gli altri 4 (Florida, Arkansas, North Dakota e Oklahoma) in caso di vittoria del Si verrebbe regolamentato l’esclusivo utilizzo dell’erba per scopi medici.
Produttori di cannabis contro casinò, alcol e industria farmaceutica
A differenza delle precedenti consultazioni referendarie sulla cannabis (vincenti in Colorado, Washington, Oregon, Alaska e Washington DC), questa volta a scendere in campo per sostenere il fronte del Si è stata direttamente l’industria in inarrestabile espansione della cannabis legale.
I numeri confermano che i comitati referendari per il Si degli Stati interessati hanno raccolto 38,7 milioni di dollari, con due terzi dei ‘grandi donatori’, soprattutto industrie e aziende, appartenenti al settore della cannabis legale. Bisogna comunque aggiungere che i promotori principali dei referendum pro cannabis restano ancora importanti associazioni antiproibizioniste e libertarie come la Drug Policy Alliance, la NORML ed il Marijuana Policy Project.
Molto più modesta, 11,9 milioni, la cifra raggranellata dai comitati del No. Anche se tra questi ultimi vanno annoverati finanziatori di peso come società farmaceutiche (Big Pharma), industrie del gioco d’azzardo e produttori di birra e alcolici, tutti accomunati dalla volontà di mantenere chiuso il mercato della marijuana legale che sottrarrebbe loro introiti milionari.
Nessuno scrupolo morale o volontà di proseguire una inutile ‘war on drugs’, dunque. Solo affari. Anzi, business, come dicono gli americani.
Le posizioni di Clinton e Trump
In questo quadro si inseriscono le dichiarazioni dei candidati alla presidenza. Hillary Clinton ha più volte ribadito di voler portare avanti la politica di non ingerenza nelle scelte politiche dei singoli Stati intrapresa da Barack Obama, anche sul tema legalizzazione cannabis. La Clinton, inoltre, ha dichiarato di voler mettere mano alla legislazione federale al fine di eliminare la marijuana dalla categoria delle sostanze più pericolose. Più sfumata, invece, la posizione di Donald Trump. Da buon Repubblicano, il tycoon difende a spada tratta i diritti degli Stati membri dell’Unione dall’ingerenza del potere centrale di Washington, compreso quello alla libera cannabis.
Il problema di Trump sono però i suoi molti alleati ultra proibizionisti. Comunque sia, i sondaggi confermano che il 60% degli americani è favorevole alla legalizzazione della cannabis, e tanto basta per orientare le decisioni dei candidati alla Casa Bianca.