Di Lorenzo Bodrero (IRPI Media)

Editing: Luca Rinaldi (IRPI Media), Massimiliano Mattiello (Blasting News), Angelo Paura (Blasting News).

Da più di trent’anni è in corso una metamorfosi, lenta ma costante, che ha ridisegnato il modo di intendere il calcio. Da quando cioè i club hanno svestito i panni di entità no-profit per diventare imprese votate al profitto. È cominciato tutto con Silvio Berlusconi quando, nel febbraio del 1986, acquistò il Milan per una manciata di miliardi delle vecchie lire. Erano tempi in cui i bilanci delle società dipendevano interamente dagli introiti generati dalla vendita dei biglietti. Oggi, invece, la fetta più grande degli utili - in media il 40% - arriva dai diritti televisivi, inimmaginabili quando Berlusconi entrava in possesso del club rossonero.

Da allora, la trasformazione ha interessato il modo in cui le società di calcio sono strutturate. E così sono arrivati i Tanzi, i Cragnotti, i Matarrese, i Moratti, i Borsano e molti altri in quella che la società di consulenza Kpmg descrive come “proprietà politica”, tipica del medio-grande imprenditore che non necessariamente imprime una corsa al profitto bensì veicola il messaggio di un marchio o di una società attraverso l’unicità del calcio, in grado di raggiungere un pubblico inesauribile.

Esemplare è stata l’esperienza dell’ex Cavaliere laddove ha legato i successi sul campo di calcio a quelli commerciali prima e politici poi con la nascita di Forza Italia nel 1994. Lo stesso concetto si ripropone oggi con i casi, ad esempio, di Manchester City e Paris Saint Germain i cui successi sul campo contribuiscono a ridisegnare positivamente l’immagine internazionale dei rispettivi Paesi di appartenenza, Emirati Arabi e Qatar.

È poi seguita l’era dell’imprenditore straniero in cerca di fortune in un campionato, quello italiano, molto più accessibile per quanto riguarda l’investimento iniziale di quello inglese o spagnolo. Con i businessmen d’oltremare è coincisa la prassi ormai diffusa di registrare in paradisi fiscali le holding societarie che controllano i club: dal Lussemburgo all’Olanda, dalle Isole Cayman allo statunitense Delaware, e oltre.

Fino ad arrivare all’ultimo stadio della metamorfosi, dove le quote dei club sono in mano a fondi di investimento e colossi del settore assicurativo.

Fuori i cinesi, dentro gli americani

Da qualche anno ormai l’Italia calcistica si sta rivelando particolarmente attraente per gli investitori a stelle e strisce. Dall’arrivo di James Pallotta, a capo di una cordata americana che nel 2011 ha acquistato la Roma, oggi sono undici i club tra serie A e C in mano a entità straniere, di cui sette americane. Le ragioni della nuova Eldorado all’italiana le spiega a Blasting Investigations Fernando Roitman, responsabile del Cies Sports Intelligence, progetto di analisi statistica del International Centre for Sports Studies: “I magnati Usa non solo dispongono di importanti capitali ma sanno anche che guidare un club calcistico in Europa porta prestigio e una maggiore valutazione dei propri asset.

Inoltre, l’investimento iniziale per l’acquisto di un club italiano è irrisorio rispetto alla cifra da sborsare per comprarne uno americano o inglese, senza contare che in Italia la prospettiva di investire nella costruzione di nuovi impianti sportivi risulta molto allettante”. Secondo Deloitte, una delle più grandi società di consulenza e revisione al mondo, infatti, in Italia il rinnovamento degli impianti nei prossimi dieci anni attirerà investimenti per 4,5 miliardi di euro, mentre i diritti televisivi - seppur ben al di sotto di quelli per i campionati inglese e spagnolo - nel prossimo triennio dovrebbero almeno pareggiare o addirittura superare gli 1,4 miliardi del ciclo precedente. Un’impronta che è destinata ad accentuarsi come già successo in Inghilterra dove, nello scorso campionato, tre club su quattro erano in mano a un qualche tipo di investitore straniero.

Prima degli americani però erano gli investitori cinesi ad aver avviato la colonizzazione del Vecchio continente. Il piano del presidente Xi Jinping, annunciato nel 2015, era di trasformare la Cina in “una superpotenza del calcio mondiale” con investimenti interni ed esterni per 800 miliardi di euro. Cifre molto elevate, che secondo il New York Times hanno spinto facoltosi imprenditori cinesi a investire circa 2,5 miliardi di euro nel calcio europeo negli ultimi anni, entrando nel capitale sociale di una trentina di club tra Manchester City, Aston Villa, Birmingham, Wolverhampton, Southampton, Sochaux, Slavia Praga e altri. In Italia, questo shopping compulsivo ha interessato le acquisizioni dell’Inter (2016), del Milan e del Parma (2017).

La bolla è però durata poco e dal 2017 si assiste alla ritirata cinese, causata dalla stretta del Partito sugli investimenti esteri non strategici e accelerata dalla pandemia. Nel frattempo, l’avanzata americana si è fatta sempre più evidente fino a soppiantare quella della Cina. Secondo il Cies, nelle prime due divisioni dei campionati europei al momento sono 38 i club in mano a investitori Usa, circa il 22% di tutte le squadre.

Fondi di investimento, i padroni senza volto

Il calcio non è un investimento sicuro. Basta chiedere a chi guida un club quotato in borsa. Troppe variabili troppo imprevedibili. Una stagione particolarmente sfortunata in fatto di infortuni, un trofeo mancato o una fallita qualificazione possono costare decine se non centinaia di milioni in un settore dove si guarda al breve periodo, dominato dai risultati sul campo.

Eppure questo tipo di investitori non manca né in Italia né nel resto d’Europa. “Generalmente questo tipo di investitori ha come obiettivo quello di rivalorizzare un club sottovalutato utilizzando nuovi metodi per poi rivendere il club stesso”, spiega a Blasting Investigations Francesco Addesa, professore di Sport Business Management all’Università di Leeds, in Inghilterra. E aggiunge: “Non mirano a una strategia a lungo termine”. Con un debito complessivo passato dai 2,6 ai 4,6 miliardi di euro in dieci anni e con i costi della pandemia che hanno raggiunto i 700 milioni, la serie A è sempre più obiettivo dei fondi di private equity, come quelli interessati all’acquisto di Sampdoria e Genoa o a quelli che a lungo quest’anno hanno corteggiato la Lega Serie A per la creazione di una media company controllata da entrambi.

Eppure, il campionato italiano rimane attraente. Vuoi per il valore culturale del calcio italiano, storicamente tra i più prestigiosi, con club dal forte fascino internazionale e giocatori e allenatori entrati nell’immaginario collettivo globale. Vuoi per i prezzi più bassi per chi vuole investire: tra i 32 club europei più prestigiosi, le società italiane valgono in media un terzo di quelle inglesi e la metà di quelle spagnole, necessitano quindi di un capitale iniziale assai inferiore per l’eventuale acquisto. Inoltre, 60 milioni di abitanti e 30 milioni di appassionati rappresentano un ampio mercato a cui rivolgersi.

Ma, soprattutto, la questione immobiliare, forza trainante della finanza che si rivolge al pallone.

Al momento soltanto quattro società di Serie A sono proprietarie dello stadio in cui giocano (Atalanta, Juventus, Sassuolo e Udinese). Non possederlo non è percepito come ostacolo quanto invece un’opportunità per sviluppi futuri. Non sorprende che gran parte dei nuovi investitori stranieri (Fiorentina, Inter, Milan, Roma) abbiano in programma la costruzione di nuovi impianti – tra stadi e centri sportivi – alla ricerca dell’ottimizzazione dei ricavi, tra biglietteria, diritti di denominazione dello stadio e utilizzo lungo tutto l’arco dell’anno dell’arena trasformata in uno spazio multifunzionale, da utilizzare non solo durante le gare.

La passione del calcio italiano per l’offshore

La mappa delle proprietà delle società calcistiche italiane porta sempre più spesso nei paradisi fiscali.

Dalla Serie A alla C la tendenza è quella di registrare in Paesi con regimi fiscali agevolati le holding societarie. Tra quelli più ambiti c’è il Lussemburgo, cuore finanziario dell’Europa. Qui si trovano le società che controllano Milan, Inter, Udinese e un pezzo del Bologna. Il Granducato è ideale per registrarvi società che detengono quote in altre società, le cosiddette holding. Un pezzo del Milan è invece registrato nel Delaware, piccola oasi fiscale degli Stati Uniti, nello stesso palazzo condiviso con Fiorentina, Roma e Venezia. La Juventus ha scelto invece l’Olanda dove la Exor, holding storica della famiglia Agnelli con un fatturato che sfiora i 163 miliardi di dollari, è l’azionista di maggioranza della Juventus Football Club Spa.

Per capire l’attrattività del Paese fiammingo, due dati su tutti: qui hanno trovato dimora 15.000 Special Financial Institutions (FSI), acronimo che indica l’anello di congiunzione tra le filiali del Paese di origine e quelle di destinazione di grosse corporation internazionali. Sono anche dette “società di comodo” o “società cartiere” per il ruolo puramente burocratico che ricoprono. L’altro motivo è il costante flusso di denaro che attraversa l’Olanda, 4.0000 miliardi di dollari all’anno, mosso dalle FSI. I primi tre Paesi per origine e destinazione di un simile capitale sono Svizzera, Lussemburgo e Stati Uniti, secondo il Financial Secrecy Index 2020.

A tirare le fila delle sorti nerazzurre ci sono invece tre società registrate in tre Paesi che compaiono nei primi sei posti dell’indice di segretezza finanziaria (Lussemburgo, Hong Kong, Isole Cayman).

Le Cayman rappresentano forse il più noto paradiso fiscale al mondo, famoso – tra le altre cose – per non avere imposte sulle società né sui redditi generati al di fuori del suo territorio. Il Bologna oltre al Lussemburgo ha scelto anche il Delaware. La società registrata nel piccolo Stato sulla costa Est degli Stati Uniti controlla infatti un’omonima società nel Granducato che a sua volta detiene quasi l’intera proprietà del club rossoblù.

Ben radicato in Delaware è anche il Milan. Qui due società controllano la Project Redblacks di base in Lussemburgo, quest’ultima proprietaria della Rossoneri Sport Investment sempre nel Granducato e che controlla l’AC Milan. Il Delaware, che conta in tutto 970mila abitanti e 1,5 milioni di società registrate, è la meta preferita per le multinazionali.

Il 68% delle società presenti nella classifica di Fortune 500 è registrata qui, nel piccolo stato-cuscinetto tra il Distretto di Washington e l’Oceano Atlantico. In un piccolo e anonimo edificio a un piano nella città di Wilmington, in Delaware, ha sede la Corporation Trust Company, la società incaricata di custodire le holding di Fiorentina, Milan, Roma e Venezia le quali da un punto di vista meramente fiscale condividono quindi lo stesso indirizzo. La Corporation Trust Company è una cosiddetta company formation agent, una società che per conto dei propri clienti crea e registra altre società. Di loro si serve tipicamente chi in quel Paese non è residente e sono dunque particolarmente diffuse nelle giurisdizioni offshore a regime fiscale ridotto.

Pensano a tutto loro. Per un compenso che va dalle poche decine alle poche centinaia di dollari si occupano della registrazione, di aprire un conto in banca collegato alla neo società e se necessario provvedono a dedicare un servizio di segreteria incaricato di rispondere al telefono e alle mail. In Stati come il Delaware, Nevada, Vermont e Wyoming le azioni di lobbying di queste società per il mantenimento dell’attrattività fiscale del singolo Stato sono tali che il Tax Justice Network li definisce dei “capture state”, Paesi in cui “le decisioni a livello legislativo sono prese a porte chiuse tra chi legifera e chi rappresenta interessi finanziari, lontano da complessi processi democratici”.

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