“Un nuovo, perverso meccanismo di segregazione istituzionale”. I volontari del Coordinamento per la Pace di Trapani puntano decisamente il dito contro gli “hotspot”, le nuove strutture volute dal ministero dell’interno che dovrebbero velocizzare le pratiche per il riconoscimento degli immigrati e l’ottenimento dello status di rifugiato. Il secondo hotspot istituito in territorio italiano dopo quello di Lampedusa è stato allestito a Trapani, nei locali dell’ex Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) di contrada Milo. Secondo il Coordinamento per la pace, "nonostante scandali ed inchieste” tra cui quella che ha portato alla condanna per concussione ed abusi sessuali su giovani immigrati dell’ex direttore della Caritas, don Sergio Librizzi, Trapani continua ad essere uno punto cardine dal punto di vista logistico in quelle che sono le strategie politiche sul tema immigrazione da parte dei governi che hanno guidato il Paese dagli anni ’90 ad oggi.

Punti deboli delle nuove strutture

Nella nota diffusa alla stampa dal Coordinamento per la Pace si evidenzia come “nel centro di Milo si decide il destino di donne e uomini arbitrariamente divisi in migranti economici e potenziali chiedenti asilo”. Vengono poi citate “numerose testimonianze di persone recluse nell'hotspot di Lampedusa, dove “poliziotti italiani ed europei fanno firmare un questionario, senza alcuna traduzione, ai migranti appena sbarcati per stabilire se sono migranti “economici” o meritevoli di protezione umanitaria ma in molti casi il solo criterio utilizzato è il Paese di provenienza. Poi si procede anche con la forza alla rilevazione delle impronte digitali, come raccomandato o dalla Commissione Europea.

Pertanto, in tal modo “i migranti economici vanno espulsi e se non è subito possibile gli viene consegnato un foglio con l’intimazione di lasciare l’Italia entro sette giorni”. Per il Coordinamento per la Pace “tutti i migranti meritano accoglienza perché tutti rischiano la vita cercando di scappare da instabilità e povertà. I migranti considerati, invece, dei rifugiativengono identificati, trattenuti in attesa della "ricollocazione", e introdotti nell'estenuante procedura per il riconoscimento del diritto d'asilo. Ma a causa del regolamento di Dublino – prosegue la nota - al profugo viene impedito di andare nel paese realmente desiderato ed è per questo che molti di loro si rifiutano di fornire le impronte digitali nell'hotspot di arrivo”.

La tragedia del ‘Vulpitta’

La nota del Coordinamento per la Pace giunge alla vigilia del sedicesimo anniversario della strage del Centro di Permanenza Temporanea (CPT) dell’Istituto “Serraino Vulpitta” di Trapani. Fu il primo ad essere istituito in territorio italiano nel 1998 dalla Legge Turco-Napolitano sull'immigrazione. La normativa prevedeva il trattenimento per trenta giorni (poi portati a sessanta dalla Legge Bossi-Fini) degli immigrati irregolari all'interno della struttura, prima di avviare le procedure per l’espulsione dal Paese.

Per i partiti politici di sinistra e per movimenti ed associazioni si trattava a tutti gli effetti di una "detenzione" per un reato amministrativo, pertanto assolutamente contestabile. Nella notte tra il 28 ed il 29 dicembre 1999 sei giovani immigrati morirono per le gravi ustioni riportatein un incendio, appiccato durante un tentativo di fuga dal “Vulpitta”. Il Coordinamento per la Pace e le altre forze che si opponevano ai CPT sottolinearono le pesanti responsabilità nella circostanza dell’allora prefetto di Trapani, Leonardo Cerenzia, che finì sotto processo con l’accusa di omicidio colposo plurimo dalla quale però venne assolto nel 2004. Per diversi anni i movimenti pacifisti hanno organizzato a Trapani una manifestazione in ricordo delle sei vittime del rogo che toccò il suo picco nel 2003, con la presenza in città di oltre 1.200 persone provenienti da tutta Italia.