Lo scandire delle date e dei fatti sono quelli di un bollettino di guerra. 28 giugno, aeroporto di Istanbul: 42 morti (tra cui 13 stranieri: 5 sauditi, 2 iracheni, un tunisino, un uzbeco, un cinese, un iraniano, un ucraino e un giordano) e 239 feriti per un attacco kamikaze jihadista, presumibilmente effettuato da cittadini delle repubbliche islamiche ex-sovietiche.
Dacca, 1 luglio. Un commando si barrica all'Holey Artisan Bakery, al grido di 'Allah Akbar', con almeno 33 ostaggi. Ne uccidono 20 che non sapevano recitare il corano: 9 italiani, 7 giapponesi, una studentessa indiana appena 19enne e tre bengalesi dei quali uno cittadino americano.
Baghdad, 3 luglio. Due autobomba esplodono nei quartieri sciiti, provocando 126 morti e circa 180 feriti. L'attacco è stato rivendicato dall'Isis. In totale, in soli 5 giorni, il terrorismo islamico collegato a Daesh ha causato 188 morti e oltre 400 feriti.
L’escalation ricorda quella di otto mesi fa, quando, nell’arco di 14 giorni,ci furono complessivamente 396 morti e 591 feriti: il 31 ottobre, con l’esplosione dell’Airbus russo A321, che causò 224 morti; l’11 novembre, con la strage nel quartiere sciita di Beirut (43 morti e 239 feriti), provocata dall’attacco suicida di 2 attentatori e, il 13 novembre, a Parigi, con sette azioni coordinate, che hanno causato altri 129 morti e 352 feriti, nonostante, proprio il giorno prima, le polizie europee avessero trionfalmente annunciato di aver sventato un altro probabile attacco, grazie a 17 arresti.
Senza dimenticare l’attentato suicida al centro di Istanbul, il 12 gennaio 2016, che ha causato ulteriori 13 morti, di cui 12 di nazionalità tedesca.
Cosa è successo, nel frattempo, tra il 13 novembre e il 28 giugno? Per comprendere l’ingarbugliata situazione politica del Medio Oriente e la sua evoluzione è necessario ripartire dagli schieramenti ex-ante sul campo di battaglia del conflitto siriano.
Anche se, a parole, tutti erano nemici dell’ISIS, da una parte c’erano Assad e suoi alleati: Iran, Russia, Hezbollah libanesi e i Curdi. Dall’altra, quelli che, essendo nemici di Assad, erano reali o potenziali amici di ISIS: i ribelli filo-occidentali (cioè Al Qaeda), la Turchia, i Sauditi e gli Emirati. Ne consegue che l’esistenza di Daesh faceva comodo sia a Israele che agli Stati Uniti, perché funzionale all’eliminazione di Bashar El Assad dall’orizzonte politico.
Per questo Daesh continuava a prosperare e a rafforzarsi.
I primi a sfilarsi, però, sono stati gli USA, che hanno archiviato il trentennale conflitto diplomatico con l’Iran per poi avviare colloqui segreti con Putin. Gli esiti sono stati quelli di abbandonare al suo destino l’opposizione democratica ad Assad, costringendola ad accettare un formale cessate il fuoco. Dall’altro lato, Putin ha cominciato a smobilitare e Assad è rimasto libero di combattere Daesh, finalmente con successo. Probabilmente la contropartita di Obama è stata quella di ottenere garanzie per il corridoio energetico che, dall’Arabia, attraverso Giordania e Siria, raggiungerà l’Europa, fornendone analoghe alla Russia per quello longitudinale che dall’Iran alla stessa Siria porterà sulle sponde del Mediterraneo il petrolio del Caspio.
Ma, di mezzo c’era Daesh, a rompere le uova nel paniere a troppe compagnie petrolifere multinazionali.
Sicuramente, inoltre, il leader turco Erdogan è stato diffidato dal rifornirsi di petrolio e gas dall’ISIS, mettendo in crisi la principale fonte di finanziamento dello Stato islamico. La “distensione” USA-Russia ha quindi consentito la riconquista siriana di Palmira e quella irachena di Falluja, due città già in mano all’ISIS. Di qui, i colloqui Putin-Netanyahu del 21 aprile, la riconciliazione Israele-Turchia del 25 giugno e l’incontro Ministri Esteri di Russia e Turchia dello scorso 30 giugno. Con la recente escalation degli attentati, Daesh vuole ricordare che, anche se sconfitta, in Medio oriente, sarà sempre in grado di portare il terrore e la Jihad in tutto il pianeta.