L’erba del vicino è sempre più verde. Almeno per il nostro legislatore, che non resiste quasi mai alla tentazione di importare nel nostro ordinamento modelli giuridici lontani dalla nostra tradizione. O addirittura estranei ad essa, come nel caso dei contratti prematrimoniali. Largamente diffusi negli Stati Uniti d’America (sono di pubblico dominio i dettagli del contratto prematrimoniale tra Brad Pitt e Angelina Jolie, nella foto) i prenuptial agreements in contemplation of divorce, ovvero i contratti con i quali i nubendi si accordano preventivamente sulle conseguenze patrimoniali del loro eventuale divorzio, nel nostro Paese invece sono vietati, e se ugualmente stipulati, vanno dichiarati nulli, per illeicità della causa, nonché per contrasto con l’art.

24 della Costituzione, che sancisce il diritto di difesa. Rispetto, tuttavia, a precedenti trapianti nel nostro tessuto normativo di istituti (si pensi solo alla media-conciliazione) che hanno provocato serie crisi di rigetto da parte degli operatori del diritto, i patti prematrimoniali possono quantomeno sperare in una benevola accoglienza da parte sia degli avvocati, che sembrano ritenerli utili a prevenire future controversie, sia da parte dei giudici. In particolare, la più recente giurisprudenza di legittimità, pur senza mai rinnegare il tradizionale orientamento restrittivo dell’autonomia negoziale delle parti in questa materia, che resta regolata dalla disciplina legale sullo scioglimento del matrimonio, sembra cautamente aprirsi alla possibilità di tali patti nella misura in cui gli stessi siano collegati alle spese affrontate dai coniugi per la ristrutturazione dell’immobile adibito a casa coniugale (Cass.

sent. n. 23713/12) ovvero all’obbligo della restituzione di un mutuo tra loro intercorso (Cass. sent. n. 19304/13)

Iltabù della commercializzazione del matrimonio.

Ferma la necessità, sotto il profilo tecnico-giuridico, di salvaguardare i diritti dei coniugi c.d. “indisponibili”, e cioè quei diritti non possono essere limitati o ceduti in deroga a quanto previsto dalla legge, il vero il tabù culturale che il ddl Morani- D’Alessandro dovrà sfidare è quello della temuta commercializzazione del matrimonio che deriverebbe dall’introduzione di questi patti.

Il tema posto all’ordine del giorno dal ddl Morani-D’Alessandro è indubbiamente denso di implicazioni sul piano etico, morale e religioso. Da un lato, la conservazione di tale divieto, che affonda le sue radici nel principio dell’indissolubilità del matrimonio, a distanza di tanti anni dalla introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto del divorzio, appare ormai anacronistico.

Dall’altro, vi è chi – come Enrico Costa, ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie nel Governo Renzi, che si è già dichiarato contrario al ddl Morani-D’Alessandro – teme una progressiva deriva verso la mercificazione dei sentimenti e che l’autonomia negoziale riconosciuta ai nubendi possa sferrare un definitivo colpo alla stabilità del matrimonio. Il dibattito intorno a questo tema ha subito una brusca accelerazione a seguito della probabile introduzione delle unioni civili (l’ormai noto ddl Cirinnà) che dovrebbero prevedere analoghi patti tra conviventi. E allora come negarli ai nubendi? Lo scopriremo solo vivendo.