A Ryad, qualche giorno fa, Donald Trump ha parlato di fronte alla platea dei leader arabi sunniti che, volenti o nolenti, sono stati costretti a far buon viso alla sua nuova politica estera nella regione e non hanno battuto ciglio alle sue “esternazioni”.
La fornitura di armi all’Arabia Saudita – non gratuita, ma al prezzo di 300 miliardi di petrodollari, di cui 110 subito – e l’indicazione dell'Iran sciita quale principale nemico, insieme al terrorismo, sono state le argomentazioni del discorso di Trump, argomentazioni che hanno riscosso i consensi degli astanti, nonostante i riferimenti del presidente Usa all' "oppressione delle donne, la persecuzione degli ebrei, il massacro dei cristiani” nel mondo arabo.
A Taormina, al vertice del G7, invece, Trump si è trovato davanti degli interlocutori molto meno malleabili i quali, anziché mettersi ad ascoltare i suoi eloquenti discorsi lo hanno subito messo di fronte alle conseguenze che il suo programma elettorale e i suoi primi atti da Presidente stanno avendo sulle più importanti problematiche economiche del pianeta.
Trump tirato per la giacchetta dai sei partners
La prima tematica per la quale il “tycoon” è stato tirato per la giacchetta sono stati gli accordi climatici, sottoscritti a Parigi da Barack Obama e che il Presidente ha più volte dichiarato di denunciare. Sul loro mantenimento i sei hanno fatto quadrato e, per la prima volta, gli Stati Uniti si sono trovati isolati.
Il quartetto Merkel, Macron, gentiloni e Trudeau hanno, poi, tallonato Trump per quanto riguarda la liberalizzazione degli scambi commerciali. Uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale del Presidente USA, infatti, è stata la promessa di interporre barriere doganali sulle principali merci europee (tedesche in particolare).
Qui la premier britannica May e il giapponese Abe hanno mantenuto un atteggiamento più defilato perché la prima, pur professando idee liberiste in economia, preferisce non scoprirsi troppo con gli ex partners UE prima delle trattative per la Brexit; Abe, invece, ha troppo bisogno degli Stati Uniti, sia in campo militare, data la politica aggressiva della vicina Corea del Nord, sia in campo economico, per proteggersi dai prodotti cinesi.
Alla fine Trump ha dovuto ammettere che non sempre il protezionismo sia una politica efficace a difesa dei posti di lavoro, come da lui predicato in campagna elettorale.
Un altro campo in cui ha dovuto cedere è stato quello dell’inasprimento delle sanzioni alla Russia, sinché non vengano completamente attuati gli accordi di Minsk sulla normalizzazione della situazione in Ucraina. In proposito, colui che ha dovuto far buon viso a cattivo gioco, sull’inasprimento delle sanzioni, è stato l’italiano Gentiloni, il più vicino a Putin, tra i sette.
L’unico punto su cui Trump l’ha avuta vinta è stato sul problema migrazioni, dove è riuscito a far accettare il principio secondo il quale ogni Stato ha diritto a limitare gli ingressi secondo la propria capacità di assorbimento, ma è un principio che ogni Stato può coniugare a proprio piacimento.
Mai vertice G7 fu così disunito
Sostanzialmente, per la prima volta, il G7 ha registrato pareri divergenti quasi su tutto e, addirittura, sul problema climatico, il documento finale ha “certificato” l’isolamento degli Stati Uniti, la prima potenza industriale del mondo occidentale, dagli altri sei. Di ciò, probabilmente, a Trump è importato molto poco, perché ha lasciato il summit prima ancora della conferenza finale di presentazione dei documenti sottoscritti. Anche la Merkel ha fatto ciò, dichiarando di essere rimasta “molto insoddisfatta”, in particolare per quanto riguarda l’accordo climatico che, sostanzialmente, non c’è stato.