Da alcuni giorni la Turchia ha dato inizio ad un’ operazione militare in territorio siriano e, precisamente, nel distretto di Afrin, cioè all’estremo nord-ovest del paese. Afrin, a soli 55 chilometri da Aleppo, è attualmente sotto il controllo delle milizie curde; mentre, nel 2004, contava circa 170.000 abitanti censiti, negli ultimi quattro anni è cresciuta ad almeno 400.000, grazie all’apporto dei profughi provenienti dalle altre zone di guerra.

L’offensiva aerea turca, ipocritamente battezzata “ramoscello d’ulivo”, ha colpito, solo nel primo giorno, un centinaio di obiettivi, compreso l'aeroporto di Minnigh e causando vittime.

Contemporaneamente, da sud-ovest, il distretto è stato attaccato dalle fazioni ribelli al governo centrale di Assad e, precisamente, dai jihadisti controllati e sponsorizzati dal presidente turco Recep Erdogan.

La sensazione è che tale mossa costituisca il primo passo verso la “resa dei conti” tra Erdogan e l’entità politico-militare dei curdi siriani, accusati da Ankara di fomentare il nazionalismo del PKK all’interno dei propri confini, anche con azioni terroristiche. L’iniziativa turca rappresenta l’ennesima svolta nella crisi siriana, ora che il pericolo Daesh è stato praticamente eliminato – almeno sul terreno.

I prodromi

Non è la prima volta, negli ultimi due anni, che la Turchia entra nello scacchiere siriano a scapito delle milizie curde.

Lo ha fatto prima del tentativo di colpo di Stato del 2016, quando ancora era in essere la coalizione anti Daesh voluta da Obama e alla fine dello stesso anno, ufficialmente per combattere l’ISIS nella sua roccaforte di Raqqa. Entrambe le azioni, in realtà, furono effettuate con l’intento di dividere l’entità curda di Siria in due parti.

Sia nel primo che nel secondo caso, Erdogan è stato costretto a desistere, in parte per la reazione diplomatica statunitense e, in parte, per la reazione militare degli stessi curdi.

Con l’avvento di Trump e il progressivo disimpegno USA nell’area, il compito di scacciare l’ISIS dalle sue roccaforti è stato delegato ai curdi, mentre l’appoggio militare russo ad Assad ha permesso all’esercito siriano di confinare i ribelli antigovernativi in alcune riserve ad ovest, con il consenso diplomatico di Washington.

Per questo, sinora, un’eventuale escalation militare turca, in funzione anti-curda è stata sempre “stoppata” dalle parti in causa.

Nel frattempo, però, Ankara si è sempre più avvicinata alla Russia di Putin e si è rafforzata diplomaticamente, tanto da essere ammessa, insieme all’Iran, ai colloqui a tre per decidere il destino siriano. Da tali colloqui, il nuovo presidente USA non ha potuto far altro che restare a guardare.

Cosa c’è dietro le quinte

E’ evidente che l’azione di Erdogan abbia avuto il via libera di Putin. Non fosse altro perché lo spazio aereo sul distretto di Afrin è tuttora sotto il controllo dell’aviazione russa. Ciò significa che, nei colloqui a tre (Russia, Turchia e Iran) di cui sopra è stata già decisa la soppressione dell’entità politico-militare dei curdi-siriani, faticosamente costruita con il sangue, nel conflitto contro Daesh.

E’ inoltre illogico pensare che Washington stessa non sia stata quanto meno preventivamente avvertita, non essendo seguita, all’offensiva, alcuna protesta diplomatica. Tacendo, Trump, quindi, acconsente che il destino dei curdi siriani si compia nel senso voluto da Erdogan, da Putin e da Assad. Lo stesso può dirsi da parte di Teheran. Per l’Iran, infatti, uno stato curdo indipendente, sull’attuale territorio irakeno e siriano, costituisce un impedimento al collegamento territoriale con il suo alleato Assad e gli Hezbollah libanesi sciiti. Per questo Washington avrebbe dovuto sponsorizzare da anni l’indipendenza del Kurdistan. Ma, a tanto, la diplomazia americana non ci è mai arrivata.