No a un governo politico guidato da Movimento5Stelle o Lega, sì al sostegno diretto o indiretto a un esecutivo di scopo. La tanto attesa Direzione del Partito Democratico non ha sciolto i dubbi legati alla leadership interna, ma quantomeno lo ha compattato sulla posizione da assumere lunedì nell’ultimo giro di consultazioni annunciato dal Colle. Un compromesso a tutti gli effetti dunque che, al tempo stesso, non sposta gli equilibri ma rimanda la resa dei conti alla prossima Assemblea nazionale (di maggio) preludio del Congresso. Di certo può ritenersi soddisfatto Matteo Renzi, tornato a dettare i tempi nel Pd con buona pace di una minoranza cresciuta però nei numeri.

Il grande sconfitto è il segretario reggente, Maurizio Martina, uscito ridimensionato ed esautorato nella credibilità e nella libertà di azione. Poteva andare peggio però, molto peggio, considerato il clima incandescente che si respirava tra le correnti dem alla vigilia della Direzione. Renzi è stato infatti più volte sul punto di rovesciare il tavolo facendo intendere, come mai prima d’ora, di essere pronto a svuotare il PD per lanciare il suo personalissimo soggetto politico. La tregua è arrivata solo per il dietrofront di Martina e la chiusura di ogni trattativa di ispirazione pro M5S. L’ex premier, da par sua, ha dovuto concedere il via libera a trattare per un governo istituzionale di transizione.

Prova di forza di Renzi

A mostrare un sorprendente ed eccessivo entusiasmo per la conclusione della Direzione PD è stato Michele Emiliano. Per il governatore della Puglia, primo tifoso di un’intesa con i Cinquestelle, le truppe renziane sono state messe “spalle al muro”. “Le minoranze sono salite al 45 per cento - ha affermato - Renzi non ha presentato un suo ordine del giorno ed è stata votata la relazione di Martina che nega un governo con il Centrodestra o istituzionale senza l’appoggio di tutti i partiti”.

Secondo Emiliano non è naufragata del tutto l’ipotesi di un confronto con il M5S, anche se non è dato sapere come potrebbe riaprirsi un dialogo già interrotto a colpi di insulti incrociati. La realtà è che Renzi, numeri alla mano, è il solo a poter fare il bello e il cattivo tempo all’interno del PD. Fatto non trascurabile, inoltre, è che la base ha mostrato a più riprese una fedeltà incondizionata al senatore di Rignano sull’Arno tanto da invocarne l’immediato ritorno in prima linea.

Una posizione di forza che il diretto interessato non ha nessuna intenzione di sprecare. In considerazione di tutto ciò è difficile prevedere sorprese o clamorosi inversioni di rotta. Toccherà al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, superare lo stallo che non lascia grosse soluzioni a due mesi dalle elezioni.

Cinque nomi sul tavolo

Il tutti contro tutti non ha portato a nulla di buono. Mattarella dopo gli incarichi esplorativi affidati ai presidenti di Senato e Camera, Casellati e Fico, ha capito che è arrivato il momento di agire. Le consultazioni lampo di lunedì serviranno a ratificare le distanze abissali tra i leader dei partiti e a poco servirà il tentativo di Matteo Salvini di chiedere il mandato di governo.

Mattarella infatti era e resta fermamente contrario a concedere una fiducia al buio al leghista. Piuttosto il faccia a faccia servirà a sondare il terreno sulla personalità esterna da spendere per Palazzo Chigi. Seppur per un governo traghettatore, a guidare il Paese sarà un alto profilo apprezzato (più o meno da tutti). Un tecnico, meglio se economista, in grado di facilitare l’approvazione del Def e la modifica della legge elettorale prima di ritornare alle urne. Sabino Cassese, Alessandro Pajno, Giuseppe Lattanzi e Lucrezia Reichlin restano i primi nomi prestigiosi sull’agenda di Mattarella. L’ipotesi celata che stuzzica più di altre il Colle conduce dritta a Francoforte: Mario Draghi, presidente della Bce (con mandato in scadenza nell’ultimo trimestre 2019) rappresenterebbe il vero colpo a effetto. Un valore aggiunto per il Paese che tutti i partiti, a cominciare del M5S, non potrebbero rifiutare.